Gorbaciov, l’ultimo papa laico dell’Urss

 Mikhail Sergeevich Gorbaciov è stato l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico e ultimo Presidente dell’Urss. Il suo nome rimane associato alle due parole con cui cercò, senza riuscirci, di riformare il sistema: Glasnost e Perestroika, trasparenza e ricostruzione. Innescò l’opposto: dopo la breve parentesi dei primi anni Novanta, in Russia le dinamiche delle elite al potere rimangono opache, come in molte delle altre repubbliche, e il sistema sovietico si sbriciolò in poche settimane nel 1991, sotto i suoi occhi impotenti.

E’ rimasto per i russi colui che ha distrutto l’Unione sovietica. In Occidente è stato amato, prima di essere dimenticato: sia per il pubblico che per la classe politica dei diversi Paesi ha rappresentato il primo leader sovietico in apparenza decifrabile. Ma non ha saputo trasformare il suo ruolo nella storia in esperienza e narrazione condivisa con i suoi compatrioti, cosa che invece è riuscita benissimo all’attuale inquilino del Cremlino Vladimir Putin che deplorò, senza citare Gorbaciov, il crollo dell’impero sovietico come la maggiore catastrofe geopolitica del secolo scorso.

Appena diventato segretario generale del Pcus, nel 1985 Gorbaciov chiamò a Mosca, da Sverlovsk (oggi Ekaterinburg), Boris Eltsin che in seguito, dopo anni di rivalità, lo scavalcò e ne prese il posto al Cremlino. Proprio il suo tormentato rapporto con Eltsin però conferma lo spirito laico che Gorbaciov tentò invano di manifestare nei suoi anni al potere: per la prima volta nel 1987 un membro del politburo del Pcus in disaccordo con il segretario generale si dimise, e non fu costretto all’esilio o peggio ancora a una fine prematura. Dopo le dimissioni dall’organo supremo del partito, Eltsin continuò la vita politica, e con un successo che a Gorbaciov fu fatale.

Fu proprio il modernizzatore scalpitante Eltsin a gettare le basi, prima ancora del golpe conservatore che aprì la strada all’allontanamento di Gorbaciov dal potere, all’indipendenza della Russia con le elezioni presidenziali del giugno del 1991. Un passo che precedette la riunione del dicembre di quell’anno a Belovezhkaya Pushcha con i presidenti di Bielorussia e Ucraina, nella quale, senza alcuna base giuridica, fu sancita la fine dell’Unione sovietica.

Gorbaciov era nato nel 1931 a Primorie, a Stavropol, regione di campi di grano e già aria del Caucaso. Di origini contadine, lavorò all’inizio come meccanico di macchine agricole e poi, dopo la laurea in legge a Mosca, ritornò nella regione d’origine per i primi incarichi nel sistema del Partito comunista, arrivando fino a quello di segretario del Partito locale, nel 1970: i 42 anni di vita trascorsi nella regione multietnica gli insegnarono, scrisse più tardi, come “soltanto tolleranza e concordia possono garantire la convivenza pacifica tra le persone”.

Nel 1971 fu eletto nel comitato centrale del PCUS, e sette anni più tardi entrò nella segreteria del partito per occuparsi di agricoltura. Entra nel Politburo a tutti gli effetti nel 1980. Dopo la morte di Breznev assume un ruolo sempre più importante e, dopo la morte di Cernenko, nel 1985 viene eletto segretario generale del Partito.

Nel settembre del 1999 perde la moglie Raissa, mai amata dai russi per il suo ruolo da comprimaria (e anche per lo shopping a cui si dedicava nel corso delle missioni all’estero del marito), compagna e consigliera di una vita. “Io e Raissa abbiamo convissuto quasi 50 anni senza mai separarci ed essere di peso l’uno per l’altra. Insieme siamo stati sempre felici”, ha scritto nell’autobiografia romanzata “A tu per tu con me stesso” pubblicata nel 2013.

Gorbaciov, che nel 1989 fu il primo leader sovietico a incontrare un Pontefice, ha sottoscritto importanti trattati per il controllo degli armamenti, una architettura smantellata in questi anni e non ancora sostituita, neanche nella forma dei negoziati, che gli Stati Uniti insistono nel voler estendere alla Cina che tuttavia si ritrae: l’allora leader sovietico ha negoziato il Trattato Inf contro il dispiegamento di missili strategici a medio raggio, firmato con Ronald Reagan nel 1987 e il primo Start, per la riduzione delle testate nucleari, firmato nel 1991 con George Bush padre.

Ritirò le forze sovietiche dall’Afghanistan e autorizzò il rientro a Mosca di Andrei Sakharov, ponendo fine al suo esilio a Gorki. Autorizzò le prime imprese private in Unione sovietica.

Nonostante questi successi e i tanti meriti che soprattutto in Occidente gli furono riconosciuti, Gorbaciov manifestò gravi limiti nell’analisi della situazione interna dell’Urss: il suo progetto, mantenere saldamente al potere il partito comunista ma modificare la struttura dell’economia per fare decollare il Paese, fallì per l’impossibilità di far coesistere l’apparato del partito con la riforma economica, e per l’ostinata opposizione della nomenklatura.

Quando ormai il suo declino era iniziato e l’assedio al suo potere si stava organizzando, Gorbaciov non si accorse del pericolo che il risveglio delle nazionalità rappresentava per la tenuta dell’Urss. Sottovalutò la portata delle prime manifestazioni favorevoli all’indipendenza da Mosca (i baltici, la Georgia, l’Azerbaigian), e ne fu travolto.

Memorabile il gesto sprezzante con cui Eltsin nel 1991 gli intimò di leggere un testo in Parlamento. Gorbaciov, riluttante, ubbidì con un sorriso forzato che meglio di ogni frase simboleggia la sua fine politica.

(Adnkronos)