“Sono a posto con la coscienza. Io non ho ucciso Willy, non ho ucciso nessuno”. A pochi giorni dall’udienza nell’aula della Corte di Assise del Tribunale di Frosinone, che gli ha fatto ritrovare i fratelli Marco e Gabriele Bianchi e l’amico Francesco Belleggia, ma che soprattutto gli ha fatto incrociare lo sguardo della mamma e della sorella di Willy, Mario Pincarelli parla all’Adnkronos dal carcere di Regina Coeli dove è recluso da oltre un anno, coimputato insieme agli altre tre coetanei di Alatri per l’omicidio del 21enne capoverdiano avvenuto a Colleferro la notte tra il 5 e il 6 settembre dello scorso anno. Questa è la sua verità.
“All’inizio di questa esperienza non capivo nulla, non riuscivo neppure a comprendere i motivi del mio arresto – racconta il ragazzo, difeso dall’avvocato Lorendana Mazzenga – Mi sentivo dentro un frullatore, avevo la testa vuota e allo stesso tempo piena di tutto. Non so come dire, solo una grande confusione. Dalla televisione prima e dal mio avvocato poi ho capito cosa era successo, ho saputo che era morto un ragazzo di nome Willy. Sono stato male, e tanto. I primi mesi li ho passati a Rebibbia, dove ho conosciuto un signore più grande di me, anche lui con tanti anni ancora da fare. Gli ho raccontato tutto quello che era successo e lui, ogni giorno, si sedeva vicino alle sbarre della mia cella e mi faceva compagnia. Abbiamo spesso mangiato insieme, divisi dalle sbarre della cella. Poi sono stato trasferito a Regina Coeli: è un po’ diverso, ma anche qui non ho litigato con nessuno”.
“Non capisco perché ci abbiano ricamato così tanto sopra. Io sono un tipo tranquillo, dico subito le cose come stanno e ho chiesto agli altri detenuti ‘mi credete o no?’. In televisione se ne dicono tante, questo invece sono io. Ho preferito raccontare loro subito il motivo per il quale mi trovavo dentro, spiegandogli cosa era successo. Che non sono stato io ad uccidere Willy – ripete all’Adnkronos Pincarelli come un mantra – In carcere le giornate passano tutte uguali, sveglia, colazione, doccia – racconta – Sistemo la cella, passeggio un po’, vado all’aria e parlo con qualcuno. Dopo pranzo già aspetto la sera, preparo la cena, dopo di che mi metto a letto e penso a tutto. Solo il pensiero che prima o poi la verità verrà fuori, mi fa andare avanti. E a volte, quando ormai è passato più di un anno da che sono chiuso qui dentro, ancora non mi sembra vero”.
“Mi dispiace per la mia famiglia, per mia madre, per mio padre e mia sorella. Ripenso spesso a quello che è successo. Ci penso ogni sera prima di chiudere gli occhi, penso a Willy e prego per lui, la sua famiglia e anche per la mia. Se potessi tornare indietro, farei di tutto per evitare quello che è successo e soprattutto per evitare di essere coinvolto, me ne andrei a casa, come volevo fare, perché io me ne volevo andare prima che Belleggia iniziasse a litigare con Zurma. Se avessi saputo che il motivo del primo litigio era stato l’apprezzamento rivolto a quella ragazza, avrei cercato di risolvere io la vicenda da solo, andandoci a chiarire. Mia madre e la mia famiglia stanno soffrendo, per il fatto che io sono in carcere, ma io sono vivo. Immagino quindi il dolore della mamma, del papà e della sorella, sapendo che Willy non c’è più”
E ancora. “Per la prima volta ho guardato negli occhi la mamma e la sorella di quel ragazzo. Ho cercato il loro sguardo in Tribunale. Ho voluto fargli sapere che mi dispiace per ciò che è successo. E gliel’ho detto in aula, ma non sono bravo a parlare e ho detto meno di ciò che avrei voluto dire. Cioè, io già parlo poco, con le telecamere e tutta quella gente mi sono ancora più bloccato. Ho sperato fino alla fine che ognuno di loro si assumesse le responsabilità di ciò che ha fatto. Quanto a me non ho visto ciò che è accaduto. Al momento del fatto ero di spalle, ero circondato da persone che sbracciavano, mi spingevano e mi chiedevano cosa fosse accaduto. Era tutta una confusione. Fino a quel momento – continua Pincarelli – c’era stata solo la spinta che Francesco Belleggia aveva dato a Federico Zurma, poi la situazione si era calmata, per questo a tutte le persone che mi chiedevano cosa fosse accaduto rispondevo ‘nulla’. Volevo solo andarmene a casa, avevo bevuto dal tardo pomeriggio e cominciavo a sentirmi male”.
“Io non lo so chi abbia colpito Willy, ero di spalle. Chi lo ha fatto ha sbagliato, nessuno merita di morire in quel modo. Non penso però che ci fosse la volontà di ucciderlo. Non credo che Marco, Gabriele o Francesco avessero avuto questa intenzione, perché da quello che so Willy non aveva fatto niente a nessuno, neppure lo conoscevano, nemmeno io lo conoscevo. Mi sono trovato in mezzo agli impicci. Al processo – insiste Pincarelli nel suo racconto all’Adnkronos – non sono riuscito a dire tutto ciò che avrei voluto dire, non so parlare davanti a tante persone, mi sentivo schiacciare, mi mancava il respiro, avrei voluto dire di più, ma non ci sono riuscito. Ai genitori di Willy voglio dire ancora una volta che mi dispiace per tutto quello che è successo, so che il loro dolore è grande. Lo vedo negli occhi di mia madre, ed io sono ancora vivo, in carcere ma vivo. Willy è morto. Qui dal carcere ho scritto più lettere alla famiglia di Willy, dove ho cercato di stargli accanto, di fargli sentire il mio dispiacere per la vicenda, ma dicendogli da sempre che io non ho ucciso Willy”.
“Se fossi io il responsabile, lo ammetterei. Come ho sempre fatto. Sono stato sempre così, sin da bambino. Non mi sono mai nascosto dietro un mio sbaglio, ero sempre il primo a prendermi le mie responsabilità, quando sbagliavo. Io sono così, una persona semplice ma onesta. Quel sabato (il 5 settembre 2020, ndr) avevo bevuto. E’ vero, mi piace bere. Lo faccio tutti i fine settimana. Lavoravo dal lunedì al venerdì come pontarolo, tutte le mattine mi alzavo alle 5. A me piace il mio lavoro e il fine settimana mi piace divertirmi. Bevo, anche tanto quando voglio. Ma non metto in pericolo nessuno, non ho nemmeno la patente, so che mi riporta a casa qualche amico e quindi mi lascio andare”.
E sulla possibilità che i tanti tatuaggi, anche sul viso, possano aver influito sulla condanna, Pincarelli dice: “Mi piacciono i tatuaggi, se non fosse stato per mamma e papà, ne avrei fatti anche di più. Ma so che purtroppo anche per questi sono malvisto e sicuramente il mio aspetto ha pesato sulla mia accusa. Ma io sono ciò che sono, ho poco più di 20 anni e non ho mai voluto fare ‘la vita’ come dicono gli altri. Mi dispiace che la gente si fermi ai tatuaggi, che ricami sulle apparenze, ma chi mi conosce bene sa che sono un bravo ragazzo, semplice. Mi piacerebbe essere giudicato per ciò che sono e per ciò che ho fatto. Non ho ucciso io Willy – ripete all’Adnkronos – Gli ho dato solo una pizza quando mi hanno dato una spinta. Tutti sbracciavano e mi ci hanno fatto cadere sopra. E’ stato in quel momento che l’ho colpito con uno schiaffo”.
“Non ho neppure capito in quel momento, se fosse stato lui a spingermi ed eravamo caduti insieme o qualcuno mi avesse spinto su di lui. Mi sono arrabbiato pensando che sino a quel momento io avevo messo pace ed ora mi spingevano a terra, capito? Non ho visto neppure il volto, era tutto buio, ho visto solo un cappuccio bianco e quindi penso fosse di spalle. Non gli ho dato pugni in volto o in testa come ha detto qualcuno, avevo tre anelli pesanti che mi hanno sequestrato. I segni sulla pelle sarebbero rimasti. La gente ricama e condanna senza neppure analizzare i fatti – conclude – sono contento che portavo questi anelli. Per me ora sono una prova che non ho colpito con i pugni Willy. Anche le poche persone che mi accusano, si confondono, dicono di essere sicuri che fossi io e poi raccontano che indossavo una maglietta verde, oppure che sono andato via in macchina con i fratelli Bianchi. Solo che quella sera io avevo una camicia bianca e sono andato via con la Smart di un mio amico. Spero che la verità verrà fuori, per avere giustizia per Willy e per chi come me, è stato ingiustamente coinvolto in questa vicenda”.
(di Silvia Mancinelli)