“Sono divergenze parallele, quelle che corrono tra Draghi e i ‘suoi’ partiti, gli azionisti della sua maggioranza di governo. E alle volte le parti li allineano, spingendosi quasi -quasi- verso la stessa direzione. Alle volte invece si allontanano fino a far pensare che prima o poi potrebbero separarsi.
Il fatto è che Draghi e il sistema dei partiti non entrano l’uno nell’altro. Non riescono, e forse non vogliono. L’uno, il premier, fa il commissario tecnico di una squadra di persone non omogenee, né verso di lui né tra di loro. Gli altri, i partiti, sopportano a fatica il momentaneo primato di Palazzo Chigi in attesa del fatidico momento in cui vi si potranno insediare in prima persona. Il loro conflitto è felpato e diplomatizzato, da una parte e dall’altra. Ma sempre conflitto è. E da un po’ di giorni assai meno dissimulato.
La breve storia di questa reciproca asimmetria tra Draghi e le forze politiche che lo sostengono ha attraversato in questi pochi mesi fasi assai diverse. Prima, i partiti sembravano intimiditi dal prestigio del premier e piuttosto inclini a fare propria la sua agenda. Anche con qualche ipocrisia, se vogliamo. Poi però la loro natura e le loro esigenze hanno preso il sopravvento, e quel tanto di deferenza che sembravano riservare al loro primo ministro è sembrata cedere via via il passo a modi assai meno riguardosi. Fin quasi a trascurare, in questi ultimi giorni, anche quel minimo di galateo che una collaborazione di governo dovrebbe pur presupporre.
Il fatto è che al bivio di Draghi i partiti potevano fare due cose. O cogliere l’occasione per ripensare se stessi e cercare di liberarsi dei molti difetti che li avevano condotti a cedere lo scettro. Oppure dedicarsi a logorare un poco alla volta, ognuno secondo le proprie ragioni, colui che di quello scettro era stato insignito. Logorarlo magari anche a rischio di avvitarsi ancora di più nella spirale della loro stessa crisi.
Superfluo dire che hanno scelto questo secondo corno del dilemma. La campagna elettorale per le grandi città può esserne una spiegazione. Ma forse la spiegazione migliore la offre ancora una volta il vecchio Esopo, con la sua favola del ragno e dello scorpione. Infatti, è la natura stessa della contesa politica che spinge i partiti a considerare preminente la caccia all’elettore più sperduto (e magari più arrabbiato) piuttosto che a coltivare una visione più asettica e scrupolosa del bene pubblico.
Scelta tutt’altro che nobile, si dirà. E forse anche meno redditizia di quanto si calcoli. Ma tant’è. In epoca di “presentismo”, di culto dell’attualità, in cui siamo immersi aspettarsi dai partiti la lungimiranza dei padri storici risulta forse un esercizio di ottimismo troppo generoso.
Resta da capire come risponderà Draghi. E cioè se egli pensi di restare ben dentro i confini che i partiti hanno tracciato per lui. O se invece si appresti ad attraversarli. E’ ovvio che egli non “scenderà” in politica. Ed è un’ingenuità perfino irriguardosa quella di chi confida in un partito o una lista Draghi alle prossime elezioni. Tutto questo è pura fantasia, e non della migliore specie.
Tuttavia il premier potrebbe rendere più dialettico il suo rapporto con i partiti. Rispondere per le rime, quando occorre. Parlare più spesso al paese, quando lo si ritiene utile e/o doveroso. Rendere più affilate le condizioni del suo servizio pubblico. Senza trascendere, senza esagerare, senza politicizzare troppo. Ma con quella sorta di soft power, di potere gentile eppure inesorabile, apparentemente morbido e all’occorrenza incisivo, a cui s’è trovato a far ricorso quando ha dovuto affrontare personaggi assai più cospicui che non i vari Salvini o Conte.
Starà a Draghi, soprattutto a lui, stabilire fin dove si possono spingere le divergenze senza spezzare il faticoso parallelismo lungo cui corrono i binari governativi”.
(di Marco Follini)