“C’è stato, fin qui, un vincitore, forse: il Pd di Enrico Letta. E ci sono stati molti sconfitti, di sicuro: quasi tutti gli altri. Ma la vittoria non deve trarre troppo in inganno, poiché è fragile. E le sconfitte, invece, dovrebbero almeno aiutare a migliorare se stessi -cosa che non sembra stia accadendo. Naturalmente l’analisi del voto è più complessa e sofisticata di così. Tanto più dovrebbero esserlo le conseguenze che se ne traggono. Ma la fretta di tirare le somme spinge un po’ tutti verso l’approdo che sembra più prossimo, e così si finisce -un po’ tutti- con l’azzardare profezie che si rivelano non proprio infallibili.
Così, all’indomani del voto di domenica scorsa e alla vigilia dei ballottaggi di domenica prossima, la gran parte del sistema politico e mediatico si è precipitata ad assicurare che da tutto questo bailamme di numeri presi e numeri persi il governo sarebbe uscito meritatamente rafforzato. Profezia che si sta rivelando non così azzeccata, a quanto pare. In-fatti, un governo così peculiare come quello affidato alle cure di Mario Draghi avrebbe bisogno che il sistema dei partiti non fosse così forte da pretendere di guidare il gioco, ma non fosse neppure così debole da sentirsi del tutto messo all’angolo. Eppure non era così difficile prevedere che il nervosismo che il responso del voto ha trasmesso ai capi delle tribù accampate nei dintorni di Palazzo Chigi avrebbe con-corso -come sta capitando- a rendere ancora più faticosa la governabilità.
Il fatto è che il verdetto dell’ultima tornata amministrativa rivela tutta la difficoltà del nostro scombiccherato sistema politico. Che in buona sostanza è fatto di tre piani. In alto, l’eccellenza delle istituzioni, della tecnocrazia e della competenza (Mattarella e Draghi, per intenderci). In basso, la democrazia “fai da te” dei social e dei referendum. E poi, tutto quello che dovrebbe stare nel mezzo, e che invece manca all’appello: la militanza di partito, la sua leadership, i corpi intermedi. In una parola, l’ossatura di una democrazia della rappresentanza.
Così oggi i partiti si trovano nello stesso tempo a detenere le chiavi del governo votando in Parlamento e a rincorrere i loro elettori inquieti pregando che non si allontanino ancor più di quanto hanno fatto in questi anni. Essi sono detentori di un potere vuoto, che non sa più come ripensare se stesso. E infatti, un giorno confidano che la buona riuscita del governo possa porre rimedio alla loro difficoltà. E un altro giorno si illudono di riprendere in mano le redini della contesa fidando nel ravvedimento dell’opinione pubblica. Ma è sempre una concitata rincorsa degli umori altrui, a cui raramente il sistema politico, o quel che ne resta, sembra in gradi di offrire una direzione.
Naturalmente ogni partito ha la sua specifica crisi, e alcuni sono messi un po’ meglio di altri -come i numeri ci stanno dicendo. Ma quando una crisi riguarda il sistema, tutto intero, nessuno se ne può chiamare fuori con troppa disinvoltura. E infatti, anche le forze premiate da numeri meno ingenerosi si trovano a questo punto a fare i conti con il malumore sparso su tutto l’arco politico e sul vuoto che quel malumore va scavando sotto di esso.
C’è la debacle del centrodestra, vittima innanzitutto di se stesso e delle sue esagerazioni. Una debacle che il nevrotico andare e venire di Salvini sta esasperando di giorno in giorno -anche a sua spese, viene da dire. C’è il declino del populismo di marca grillina, scolpito nei numeri impietosi. E c’è, soprattutto, la marcia trionfale delle astensioni. Tutti questi fattori dilatano il vuoto in cui la politica si sta smarrendo. E non è affatto detto che il Pd sia in grado di riempirlo, quel vuoto. Tanto meno di riuscirci da solo, e senza fare una doverosa chiarezza su di sé.
In una parola il sistema politico si sta avvitando su se stesso come forse mai prima d’ora. Col rischio di offuscare prima o poi anche la brillantezza del governo che è chiamato a porvi rimedio”.
(di Marco Follini)