La riforma del reddito di cittadinanza è un passaggio significativo, e delicato, della politica economica del governo Meloni. Secondo quanto anticipato dal Corriere della sera, si chiamerà Mia (Misura di inclusione attiva) e potrebbe prendere il via già nel 2023 al termine della proroga di sette mesi concessa all’attuale Rdc. Al di là della smentita di rito del Mef, “al momento, nessuna bozza sulla riforma del reddito è all’esame degli uffici, né mai è pervenuta la relazione tecnica indispensabile per qualsiasi valutazione”, si stanno facendo i primi passi concreti.
L’obiettivo dichiarato, non facile da raggiungere, è quello di spostare la misura dal campo dell’assistenza a quello delle politiche attive del lavoro. L’incognita principale riguarda la strada che si sceglierà per mettere in concorrenza il reddito di cittadinanza con il salario. Vuol dire fare in modo che si arrivi a percepire il reddito di cittadinanza solo quando si è realmente impossibilitati ad avere un reddito da lavoro.
Lo dice in chiaro Federico Freni, sottosegretario al ministero dell’Economia e delle Finanze: “Il Mia nasce dalla volontà di spostare quello che oggi è un sussidio sul tema della politica attiva”. Come è possibile farlo? Soprattutto, è possibile farlo salvando il sussidio, laddove serve? “Si era detto che si sarebbe immaginata una misura che avrebbe consentito a chi non può lavorare di essere sostenuto e a chi non vuole lavorare di dover lavorare per forza, se la vuole. E questo si sta facendo… Con il Mia ci sarà, entro certi limiti, con determinate possibilità, la concorrenza tra lavoro e Reddito di cittadinanza”.
I nodi da sciogliere sono proprio i “certi limiti” e “le determinate possibilità”. Passa da questi parametri la necessaria articolazione che può trasformare, per una parte della platea che attualmente percepisce il reddito di cittadinanza, un sussidio in una politica attiva per il lavoro. Nello schema individuato dalla bozza, le famiglie senza componenti occupabili l’importo della Mia dovrebbe rimanere di 500 euro al mese. L’attuale durata di 18 mesi del Reddito di cittadinanza dovrebbero essere mantenuta ma solo per la prima domanda, per poi scendere a 12 mesi dalla seconda. Per gli occupabili, sarebbe in arrivo una stretta, con l’assegno che scende a 375 euro e la misura che non potrà durare più di un anno. Dopo la seconda domanda la scadenza scende a sei mesi e una eventuale terza domanda si potrà avanzare solo dopo una pausa di un anno e mezzo.
Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, segnala che se “per i cosiddetti non occupabili cambia poco”, la questione centrale resta il reddito minimo. “E’ una misura prevista dall’Unione Europea, tutti coloro che stanno al di sotto di una certa soglia devono avere un reddito. L’Italia dovrà fare i conti con le direttive della Commissione Europea sul reddito minimo, consentire a coloro che pur non trovando il lavoro perdono il reddito. Mi sembra effettivamente una grande criticità”.
Quando si parla di reddito minimo, ovviamente, non si parla di salario minimo. Sono due cose diverse. Il reddito minimo, e qualunque altra misura simile, viene considerata da chi la avversa “una sovvenzione al non lavoro”. E il dibattito ruota intorno alla valutazione se sia comunque necessaria e a quali condizioni non diventi dannosa. Il salario minimo interviene all’interno del mercato del lavoro, per stabilire che chi lavora non possa essere pagato al di sotto di una soglia stabilita. Da una parte, almeno per una fetta della platea, si resta nell’assistenza, dall’altra ci si muove nelle politiche per il lavoro. Sono entrambe misure necessarie, e andrebbero tenute insieme. Se utilizzate bene, possono contribuire a dare più dignità al lavoro, a sottrarre spazio al nero e a ridurre l’abuso di reddito di cittadinanza. (Di Fabio Insenga)