(Adnkronos) – Cosa le hanno detto i ragazzi di ‘Amici’? “Ho trovato in loro molto interesse. Mi hanno detto che il durante il Covid hanno visto il buio davanti, una sorta di muro e…”. Così Francesco Vaia, direttore dell’Istituto nazionale per le malattie infettive (Inmi) Spallanzani di Roma racconta a ‘Libero’ la sua esperienza come ospite della trasmissione ‘Amici’. Mi scusi: quello l’abbiamo visto un po’ tutti, non crede? “Certo, ma la pandemia ha esacerbato le preoccupazioni dei più giovani. È come se fosse stata tolta loro la socialità. I lockdown, le chiusure prolungate, la Dad, tutto quel tempo passato davanti a uno schermo”, osserva Vaia. Spesso ce li mettevamo noi: “Stai un po’ al computer che intanto io faccio le cose mie. Non ha aiutato”, continua.
C’erano i social, però. Non eravamo chiusi su un’isola deserta…”È vero e i social sono molto importanti, ma se utilizzati bene. Alle volte è come se i nostri ragazzi vivano ‘on-life’. Ha presente l’espressione”, ricorda il direttore. A cavallo tra realtà e virtuale? “Esatto. Alle volte non sanno se sono dentro o fuori la vita, è come se parlassero a un loro avatar – sottolinea – Come quelli che spingono ad altissima velocità la macchina… Ecco, per loro è come stare in un videogioco. Io non dico – aggiunge che il computer non sia importante,al contrario. Però bisogna incentivare i giovani alla vita, all’incontro con l’altro. Se togli loro quello, togli loro la cosa più importante che hanno”.
Perché è nell’adolescenza che uno si forma? “In realtà oggi ci si forma dai dodici anni in su. I ragazzini – risponde Vaia – vogliono sentirsi più adulti e cominciano a scimmiottare persino i vizi dei grandi. Come il fumo o l’alcol. Tutte cose che, purtroppo, sono aumentate. Però mi permetta: non si tratta di giudicarli, né di avere la pretesa di orientarli. Bisogna ascoltarli. Troppo spesso puntiamo il dito: ‘Ma guardali, crescono male’. È colpa nostra. Per due anni li abbiamo tenuti chiusi in casa”. C’era anche una necessità, quantomeno nel 2020. Ce lo spiegava anche lei, anni fa. “Certo. E per un momento non si poteva fare altrimenti. Ma il prolungare no – avverte – Un annetto e mezzo fa sono stato in un liceo romano: fuori i ragazzi fuori avevano occupato la strada, pensavo non volessero andare a scuola. Era l’opposto. Mi hanno detto che volevano tornare in classe, volevano stare con i loro amici. Insomma, volevano una prospettiva. È questo che dobbiamo dar loro”.
Faccio l’avvocato del diavolo. Non sono proprio Matusalemme, ma vent’anni fa non c’era tutta questa attenzione per gli adolescenti. La nonna, la mamma ti diceva: ‘Svegliati!’. E finiva lì. Non è che ora stiamo un po’ esagerando? “No. È una questione che si è lasciata incancrenire. E non è neanche che prima non ci fosse tanta attenzione, forse abbiamo pensato ad altro – replica Vaia – Ma i responsabili siamo noi che abbiamo costruito generazioni che si sono sempre più allontanate dalla realtà. Le sembra giusto che uno si siede a tavola e sta sempre col cellulare? Ah, non me ne parli. Io cambio tavolo… Vuol dire che non c’è attenzione per chi sta cenando con te. “Appunto. Anche questo significa abituarci a stili di vita sani. Poi c’è l’aspetto medico, più proprio”. Cioè? «L’ipertensione, il diabete, l’obesità… Se lo ricorda il Sars-Cov-2? Chi ha pagato di più sono state le persone più fragili. E quelle sono le tipiche patologie di stili di vita non salutari”, osserva.
A proposito: Covid e ragazzi, cosa ha pesato di più? “Per loro non è stata la malattia che fortunatamente li ha colpiti molto meno. Su loro hanno pesato soprattutto i lockdown, con la paura dell’ignoto e il catastrofismo”, rimarca Vaia. Pensavano alla fine del mondo? “C’erano quelli che dicevano: ‘Oddio moriremo tutti’. È stato un grande stress-test sulla popolazione giovanile: i ragazzi avevano paura, fuori dalla loro camera c’era la gente che stava morendo, le tivù facevano vedere a ripetizioni le immagini dei camion pieni di bare a Bergamo, c’era il conteggio quotidiano dei morti…”, ricorda. C’era anche il timore per i nonni, chi ne aveva uno non stava tranquillo. Ha influito? “Di più. C’era la colpevolezza, altra cosa gravissima. A un certo punto girava il monito che ‘se esci poi rientri a casa e infetti il nonno che muore’. Come si può pensare che una generazione posso crescere felice se si è sentita colpevolizzata”, conclude.