(Adnkronos) – Lavorare dopo la pensione può costare molto caro, ma ciò dipende dalla misura a cui si è fatto ricorso per il pensionamento. Per chi è andato in pensione con le regole imposte dalla legge Fornero – quindi all’età di 67 anni e con 20 anni di contributi oppure con 42 anni e 10 mesi di contributi (uno in meno per le donne) – infatti, non ci sono norme che vietano di cumulare i redditi da pensione con i proventi da attività lavorativa subordinata (come ci ricorda Money.it). L’unico vincolo è che al momento in cui si fa domanda per il pensionamento non devono esserci in corso rapporti di lavoro come dipendente, con la possibilità di essere nuovamente assunti immediatamente dopo la liquidazione del primo assegno.
Non è così, però, per coloro che sono andati in pensione in anticipo grazie alle quote introdotte negli ultimi anni, da Quota 100 alla nuova Quota 103. Queste opzioni, infatti, vietano al neo pensionato di lavorare come dipendente almeno fino a quando non raggiungerà i requisiti richiesti dalla pensione di vecchiaia, quindi fino ai 67 anni (con la sola possibilità di cumulare fino a 5.000 euro l’anno i redditi da collaborazione occasionale).
E le conseguenze possono essere molto gravi: lo ha scoperto sulla sua pelle un pensionato di Pordenone andato in pensione con Quota 100 che per poche ore di lavoro come dipendente, e appena 30 euro percepiti, deve restituire oltre 15 mila euro senza possibilità di appello.
Come ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 234 del 2022, infatti, il divieto di cumulo per chi va in pensione con le quote è assolutamente legittimo, anche quando si viene a determinare una sproporzione tra l’entità dei redditi da lavoro percepiti e i ratei di pensione da dover restituire. Questo perché chiedere di uscire anticipatamente dal lavoro e poi intraprendere una nuova prestazione di lavoro rappresenta una contraddizione che contrasta con l’obiettivo di sostenere il ricambio generazionale.