“La Corte dei Fauni”, un poema per rifondare il concetto dell’amore

MANTOVA – Davide Mattellini “combatte la negazione della cultura, la negazione del bello, del nichilismo, combatte la decadenza”. Così Riccardo Campa, docente di filosofia all’università Jagellonica di Cracovia, ed editore del poema “La corte dei Fauni” sabato scorso ha descritto il poeta, nonchè saggista, scrittore e giornalista mantovano che in un salone della Casa del Mantegna gremito, ha presentato questa sua opera, giustamente definita “enciclopedica” contando quasi 900 pagine e oltre 17 mila versi in terzine dantesche a rima incatenata.
A rimarcare l’importanza e l’eccezionalità del libro è stato anche il professor Roberto Archi che ha ricordato come l’opera mattelliniana sia il primo poema scritto da un mantovano dopo quelli di Virgilio e del ‘Baldus’ di Folengo.
“E’ una poesia sentimentale che è un diletto personale e che trova radici profonde in una ricerca culturale che spazia da Origene e dalla scuola Alessandrina fino a Matteo Palmieri e approda a D’Annunzio” ha dichiarato Archi seduto al tavolo del relatori a fianco del presidente della Provincia Carlo Bottani, dello stesso Mattellini e del giornalista Fabrizio Binacchi che, in veste di moderatore dell’incontro, ha incalzato il collega con alcune domande. La prima dedicata a Dore, il protagonista del poema, un eroe di ricerca volto a un viaggio, una sorta di periplo nell’Ellade simile a quella del giovane Anacarsi nell’Ellade del 5° secolo avanti Cristo, ma esteso anche alla civiltà latina, alla Provenza medievale, alle corti rinascimentali d’Italia, e persino ai dominî dell’Utopia.
“Quanto Dore è Davide?” chiede Binacchi. “Dore non è Davide, è un nome pascoliano che  ho scelto anche perchè è breve, facile da rimare. Come ha detto bene l’amico Riccardo Campa, c’era dentro di me la voglia di ricostruire qualcosa che mi pare sia stato supidamente e iconoplasticamente distrutto soprattutto nell’ultimo secolo. Vedo in D’Annunzio infatti l’ultimo baluardo della classicità, ma il mio lavoro più ancora che tentare di rifondare il tempio della bellezza, ovvero dell’equilibrio e dell’armonia, prova a riedificare il tempio dell’amore, valore superiore a quello della bellezza
nell’opera d’arte. Quando io vedo una scultura del Bernini ci vedo l’amore e, perdonatemi, ma se io vedo un taglio in una tela come quelle di Fontana, ci vedo tanta intelligenza, tanto concetto ma non ci vedo l’amore. Per me l’arte è quella che esprime questo valore che è eterno, molto più della bellezza che nei secoli ha cambiato schemi e modelli moltissime volte: la bellezza è una variabile, è un sentimento tanto diffuso quanto sono le persone che esprimono il giudizio, mentre invece non ci sono due forme di amore. Ce n’è una sola” ha spiegato Mattellini per far comprendere alla numerosa platea il perchè di questo poema e insieme chi sia Dore, prototipo dell’uomo alla ricerca del proprio “sé” che finalmente ravvisa come l’unica vera libertà in grado di sovrastare i fallimenti della natura, della storia e dunque persino di Dio, sia possibile conseguirla nel solo traguardo “stoico-epicureo” della morte, forma fisica e necessaria di libertà assoluta.

 

AGGIUNGI UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here