(Adnkronos) – L’avvento di terapie efficaci contro l’Hiv ha da tempo cambiato il volto di questa patologia. Oggi, le persone che ricevono questa diagnosi “sono più longeve”, ma restano ancora sotto scacco di un vissuto di colpa, noto come “stigma e, soprattutto, autostigma”. Nuovi “trattamenti a lunga durata d’azione” (long acting) possono essere un aiuto non solo dal punto di vista infettivo, anche per “l’aspetto psicologico”. Lo hanno spiegato gli esperti intervenuti al webinar ‘Come aumentare oggi la qualità della vita della persona con Hiv?’, secondo appuntamento della rubrica ‘Parliamo di Hiv oggi. Per guardare al domani’, promossa da Adnkronos in collaborazione con ViiV Healthcare, trasmessa oggi e disponibile sui canali web e social del Gruppo editoriale.
“Nella persona con Hiv c’è sempre un alone, un peso”, un senso di colpa “che difficilmente si riesce a scalfire. L’avere anche altre patologie legate all’invecchiamento che poi causano la polipharmacy”, cioè il dover assumere più di 5 pasticche al giorno, “il rispettare degli orari e fare dei controlli, peggiorano ancora di più il ‘sentirsi malato’ di queste persone”, afferma Miriam Lichtner, professore ordinario di Malattie infettive, Dipartimento di Neuroscienze, Salute mentale e Organi di senso (Nesmos), Università Sapienza di Roma, ospite dell’evento insieme a Silvia Nozza, medico infettivologo dell’Unità di Malattie infettive dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, e Maurizio Amato, amministratore delegato di ViiV Italia.
“Stigma e autostigma – chiarisce Nozza – si riferiscono al fatto che la persona con infezione da Hiv”, anche se con la terapia arriva ad avere “una carica virale negativa, quindi non è in grado di trasmettere il virus”, secondo il principio U=U (undetectable = untrasmittable), “si può sentire comunque malata perché” l’assunzione “quotidiana della terapia, per esempio”, è un “ricordare sempre di avere l’infezione da Hiv” e, questo può influire “anche nell’ambito dei rapporti sociali”. Al momento “l’innovazione tecnologica ci porta delle terapie che, per esempio, possono essere assunte una volta ogni 2 mesi – sottolinea Lichtner – Sono i cosiddetti farmaci long acting, che hanno un’azione duratura. Vengono inoculati per via intramuscolare – 2 punture che si fanno contemporaneamente e che poi durano nel sangue per 2 mesi – liberando la persona dalla schiavitù di prendere tutti i giorni una terapia per tutta la vita. E’ una grande opportunità”. Sempre più pazienti “aderiscono con grande entusiasmo a queste terapie perché si sentono come liberati il concetto del sentirsi malati”.
Liberare dall’assunzione quotidiana della terapia ha un impatto a livello emotivo. “Ci sono varie pubblicazioni scientifiche – sottolinea Nozza – Una, fatta anche nel nostro centro, fa vedere come la decisione di una persona con infezione di Hiv di assumere terapie che non sono più quotidiane, ma ogni 2 mesi, oppure – contento più futuribile – a pillole da assumere una volta alla settimana, rappresenta un importante miglioramento della qualità di vita”. Ci sono alcune molecole che “possono essere stabili per sei mesi, addirittura per un anno – precisa Lichtner – Si somministrano, per esempio, con degli impianti sottocutanei o in compresse long acting. Pensare a una terapia che viene assunta una sola volta l’anno è veramente qualcosa che ricorda quasi il vaccino, dal punto di vista delle tempistiche. Da anni si lavora, ma non si riesce a superare il concetto dello stigma. Non si esce da questo concetto e così, quando una persona sa di avere questa infezione, si autodiscrimina. Non è tanto quello che avviene poi nella società: lo scoglio maggiore è proprio contro se stesso”, nel vivere l’infezione “come una colpa”. Bisogna quindi lavorare sia su “una cultura di accoglienza”, ma anche “di accettazione”, cosa che “probabilmente – puntualizza la specialista – non riguarda solamente l’Hiv”.
La sfida “più importante – ribadisce Nozza – è che la persona con infezione da Hiv non si senta paziente, ma parte di una società, sapendo che ha semplicemente una positività a un virus perfettamente controllato dalla terapia. Questa è sicuramente una sfida che deve essere giocata su diversi piani per le persone con l’infezione. Ritengo fondamentale che, per raggiungere questi obiettivi”, siano messe a disposizione “terapie meno impattanti dal punto di vista degli effetti collaterali e dell’impiego. In questo senso, per esempio, le terapie long acting, che sono arrivate abbastanza recentemente, sono sicuramente un modello da seguire e da perfezionare anche dal punto di vista pratico”.
In quest’area “è fondamentale che i farmaci riflettano i bisogni di clinici e pazienti – evidenzia Amato – La prima esigenza è continuare a lavorare con uno spirito di squadra tra industria, ricerca clinica – quindi professionisti dell’area della salute – e con le stesse community di pazienti. Un altro sforzo molto importante è fare in modo che questa innovazione, una volta realizzata, venga effettivamente messa a disposizione delle persone che vivono con l’Hiv, nel caso della terapia”, ma anche “dei potenziali soggetti interessati alla PrEP, la profilassi pre-esposizione. In questo – conclude – serve la collaborazione anche con le istituzioni, per fare in modo che le barriere d’accesso siano superate e che i farmaci vengano tempestivamente messi a disposizione di chi ne può beneficiarne, soprattutto quando parliamo di farmaci che rappresentano una risposta agli unmet need, farmaci di valore innovativo”.