(Adnkronos) – Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per l’omicidio volontario della figlia Diana di soli 18 mesi, lasciata morire di stenti, non merita nessuna attenuante “tenuto conto dell’elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale” del fatto “e del futile ed egoistico movente che lo animava, ossia quello di ricercare e vivere dei propri spazi di autonomia rispetto al prioritario diritto/dovere di accudimento della propria figlia”. Lo scrivono i giudici della prima sezione della corte d’Assise di Milano nelle motivazioni relative alla sentenza di primo grado del 13 maggio scorso.
“Non v’è dubbio che lasciare Diana da sola in casa, con la consapevolezza di esporla anche al rischio di morire di stenti e disidratazione, per regalarsi un proprio spazio di autonomia, nella specie un lungo fine-settimana con il proprio compagno, non può che inverare la circostanza aggravante dei futili motivi” scrive la corte presieduta dal giudice Ilio Mannucci Pacini.
Nelle motivazioni, di circa 50 pagine, si ripercorre la morte della piccola: abbandonata nell’appartamento di via Parea a Milano nel pomeriggio del 14 luglio del 2022 con accanto un biberon di latte e una bottiglietta d’acqua, e trovata senza vita nel suo lettino da campeggio solo il 20 luglio. Una morte che, svela l’autopsia, è avvenuta tra il pomeriggio del 18 luglio e la mattina del 20, in un quadro di “disidratazione spiccato”.
La madre è “giuridicamente investita, come tutti i genitori, di una specifica posizione di garanzia verso i figli” che si traduce nell’obbligo “di tutelare, tra l’altro, la vita e l’incolumità dei minorenni, essendogli espressamente demandato un dovere di cura, mantenimento e assistenza della prole” si legge nel provvedimento.
“La donna sin nell’immediatezza si professava consapevole di aver tenuto, per il suo desiderio di avere propri ‘spazi’ autonomi, una condotta sbagliata e pericolosa per l’incolumità della figlia. Falso che comprendeva e metteva a fuoco tali circostanze solo a seguito del percorso psicologico seguito in carcere” evidenziano i giudici che, nel riportare ampi stralci della perizia, ribadiscono la capacità di intendere e volere dell’imputata che per salvaguardare se stessa non ha esitato a mentire. “Nel caso di specie deve attribuirsi alla Pifferi, con ragionevole certezza, la concreta previsione dell’evento morte della figlia, benché accadimento non intenzionalmente e direttamente voluto” spiegano i giudici che l’hanno condannata per omicidio volontario aggravato dai futili motivi, ma non premeditato. “Pifferi, per sua stessa ammissione, aveva certamente coscienza e volontà del disvalore della propria condotta di abbandono e della pericolosità della stessa per Diana, tanto da mentire alla madre ed allo stesso compagno su dove si trovasse la bambina: riferiva alla madre di averla portata con sé, mentre riferiva al compagno che la bambina si trovava al mare dalla sorella”.
Un allontanamento già messo in atto poco prima: “Nel primo fine settimana di luglio la Pifferi abbandonava Diana dal primo pomeriggio del 2 luglio al tardo pomeriggio del 4 luglio, per poco più di 48 ore; nel secondo fine settimana di luglio l’imputata abbandonava la piccola per circa 72 ore, dal tardo pomeriggio dell’8 luglio e sino all’11 luglio”. Ma quando l’assenza è durata sei giorni, e mai per i giudici l’imputata ha avuto intenzione di rientrare prima, la piccola Diana era già morta di stenti.
Alessia Pifferi ha avuto un atteggiamento processuale valutato “negativamente” dai giudici della prima corte d’Assise di Milano, segnato da “un evidente tentativo di deresponsabilizzazione, condotto anche adducendo circostanze oggettivamente e scientemente false, sintomatico di carente rielaborazione critica del proprio agito omicidiario” si legge nelle motivazioni della sentenza.
“Particolarmente significativo” viene ritenuto l’atteggiamento dell’imputata nei confronti del compagno, “in sostanza accusato di esser stato l’artefice ‘morale’ dell’accaduto: non perdeva occasione l’imputata, nel corso del suo esame dibattimentale, per sottolineare come lui non accettasse la presenza di Diana e come la bambina per lui fosse ‘un intralcio’, come proprio a seguito di un litigio con l’uomo, che l’aveva anche intimorita, avesse desistito dal proposito di rientrare a casa lunedì 18 luglio”. La realtà processuale è diversa e ai giudici mostra una donna capace di mentire e di lasciare sola, per quasi sei giorni, la figlia Diana.