MANTOVA – Cinquant’anni, di cui 25 passati a Mantova. E’ proprio il caso di dirlo: nella nostra città, Gabriele “Ciccio” Graziani ha passato metà della sua vita. E proprio oggi, nel giorno in cui fa cifra tonda (è infatti nato a Torino il 10 aprile 1975), ripercorriamo alcune tappe importanti della sua vita sportiva, prima da calciatore e poi da allenatore. Una carriera a forti tinte biancorosse, che l’ha portato ad essere un monumento della storia dell’Acm: miglior marcatore di sempre in maglia virgiliana (con 83 gol), nono tra i più presenti con 254 partite giocate. Chiusa la carriera da atleta, Graziani è stato viceallenatore e allenatore della prima squadra, ma ha guidato anche le squadre giovanili, Allievi e Primavera. Con quest’ultima, ha ottenuto importanti risultati: nella scorsa stagione ha conquistato il salto in Primavera 3, quest’anno è in lotta per salire nel secondo livello nazionale di categoria. Partiamo proprio dall’oggi: dopo aver vinto il girone, i suoi ragazzi dovranno disputare i play off.
Anche quest’anno un grande campionato, comunque vada, con la Primavera. Ma c’è ancora la promozione da conquistare.
“Ai ragazzi ho detto: abbiamo fatto un quadro meraviglioso, adesso manca la cornice. E’ stata una stagione strepitosa, oltre ogni aspettativa. Sapevamo di poter essere competitivi, siamo andati oltre, ed è merito della squadra. Detto questo, ancora non è stato fatto niente: giochiamoci questa finale meravigliosa, un’occasione che dobbiamo essere bravi a sfruttare. Sicuramente il regolamento non ci avvantaggia, perché staremo fermi un mese e mezzo, prima di disputare andata e ritorno. I ragazzi vorrebbero giocare anche domani, ma questo è il regolamento. Dobbiamo accettarlo e fare di tutto per portare a casa il risultato”.
Una mezza vita a Mantova, la sua.
“Vivo a Mantova dal 2000, e ne ho passati 22 in varie vesti all’interno dell’Acm: mi manca solo di fare il magazziniere e poi le ho fatte tutte. A parte gli scherzi, è un grande orgoglio e un onore far parte di questa società. Guidare la Primavera negli ultimi due anni è stato veramente bello”.
Dei primi 25 anni a Mantova abbiamo parlato. E dove si vede nei prossimi 25?
“Mi piacerebbe continuare a fare quello che faccio ora: insegnare calcio ai ragazzi e poter essere utile alla loro crescita, per accompagnarli nel calcio dei grandi. Aiutare questi giovani, che si stanno trasformando in uomini, è umanamente molto gratificante. E poi lo sto facendo in una società che mi permette di lavorare bene. Il nostro obiettivo è quello di ottenere i migliori risultati sportivi e coltivare talenti utili per la prima squadra”.
Tanti giocatori sono transitati per Mantova, pochissimi possono dire di essere diventati idoli dei tifosi come lei.
“Non mi piace vivere di passato, ma non posso negare che essere riconosciuto e salutato ancora oggi per strada da tanta gente mi fa molto piacere. Al Mantova ho dato tanto della mia vita sportiva, ma ho ricevuto molto di più. E’ bello far parte di una famiglia come questa, spero di starci ancora a lungo. Essere stato un simbolo di una società così importante come il Mantova, ti rende orgoglioso e ti fa pensare che qualcosina di buono l’hai fatto”.
Eppure la sua avventura in biancorosso non cominciò nel migliore dei modi…
“Lo ricordo ancora perfettamente: sono arrivato il 25 gennaio del 2000, la domenica siamo andati a giocare a Firenze contro la Rondinella. Se non erro la partita finì 1-1, con un gol di Bonavita. Brutta gara, eravamo nel mezzo di una pesante contestazione e presi pure uno schiaffo a fine partita. Passai il viaggio di ritorno chiamando il procuratore, dicendo che volevo andarmene. Però non fu possibile, perché in stagione avevo già fatto due trasferimenti. E rimasi qui. Un’altra cosa che mi ricordo è che il primo giorno dopo la firma, la società mi mise a dormire al Class Hotel, di fronte l’autostrada: non avevo mai visto una nebbia così fitta, rimasi scioccato. Poi le cose iniziarono lentamente ad ingranare”.
Quando ha cominciato ad innamorarsi di Mantova?
“Non c’è stato un momento preciso, ma da subito si capiva che a Mantova il calcio era vissuto non come una classica piazza del nord. L’attaccamento assomigliava molto di più a quello di una città del sud. C’era una fame incredibile di calcio, nei bar si parlava solo di pallone. Ad ogni allenamento, sul Te, c’erano sempre tanti tifosi a seguirci: avevo come la percezione che le sorti della società, prima o poi, avrebbero svoltato. In quegli anni avevo rifiutato il Venezia e il Cittadella, che facevano campionati più importanti della C2, il procuratore me ne ha dette di tutti i colori. Secondo lui avevo gettato al vento delle opportunità. Ma alla fine ho avuto ragione io. E poi c’è un altro aspetto…”
Prego.
“Io a Mantova non sono mai stato ‘il figlio di Francesco Graziani’, ma sono sempre stato Gabriele. Incredibilmente, nonostante fossi un signor nessuno calcisticamente, quando sono arrivato, nessuno ha mai fatto paragoni o mi ha mai dato del raccomandato. Meriti e demeriti venivano attribuiti solo a me. E’ una cosa che mi è sempre piaciuta di Mantova e che mi ha aiutato incredibilmente a legarmi a questo ambiente. Altrove non era stato così”.
Qual è stato il gol o il momento più importante della sua carriera a Mantova?
“Se devo scegliere un momento, la doppietta in C2 alla Cremonese al Martelli nel 2004: una partita che vincemmo 2-0 e che la gente sentiva tantissimo, in uno stadio strapieno e che mi ha fatto fare un ‘click’ mentale. Arrivammo primi in campionato, feci 16 gol stagionali: è la gara che mi ha un po’ cambiato la vita e mi ha fatto credere molto di più nelle mie capacità”.
E la più grande delusione?
“Quando subentrai sulla panchina della prima squadra nel 2017: assieme alla squadra e allo staff portammo a termine la grande impresa di salvarci in una situazione complicata e poi la società fallì. Non ce lo meritavamo. Un’amarezza ulteriore fu quella di non essere stati presi in considerazione dopo la rifondazione e la ripartenza dalla D”.
Sin qui non abbiamo parlato di papà Francesco “Ciccio” Graziani, ma avere un genitore campione del mondo non è cosa da tutti. Lei cosa ricorda della magica sera del Bernabeu, quella di Italia-Germania?
“Non andammo in Spagna, restammo a seguire i Mondiali nella nostra casa al mare vicino a Grosseto, perché mia sorella era molto piccola. Io invece avevo 7 anni. Guardammo la finale con tutto il paese e poi scappai per andare a festeggiare facendo il bagno in acqua. Quando mi riportarono a casa, all’una di notte, le buscai sonoramente dalla mamma: era preoccupata perché, nel caos dei festeggiamenti, mi aveva letteralmente perso di vista. E poi era comprensibilmente nervosa per l’infortunio di papà, che ad inizio partita si ruppe una spalla. Passai dalla gioia estrema alle botte della mamma (sorride ndr)”.