
Il sacerdote mantovano don Luigi Milani, classe 1966 e originario di Castel Goffredo, si trova dallo scorso settembre in Terra Santa per un periodo di studio e servizio, ospite del Monastero dei Cappuccini a Gerusalemme. Fin dal suo arrivo, ha vissuto in un clima segnato dalla tensione di un Paese in guerra, ma la situazione è ulteriormente precipitata a partire dal 13 giugno, con l’esplosione del conflitto tra Israele e Iran. A Gerusalemme si trascorrono ore nei rifugi sotterranei nella speranza di sfuggire ai bombardamenti
Ecco la sua testimonianza
Come si vive a Gerusalemme e in Terra Santa in questi giorni di particolare tensione?
Come mi suggeriscono anche gli amici preti e frati con cui vivo da circa nove mesi, è difficile da spiegare per chi non vive a Gerusalemme. Ogni giorno a tavola con loro la situazione politica diventa motivo di dialogo e confronto. Arriviamo sempre allo stesso punto: qualcosa è comprensibile, ma il più è un mistero indecifrabile, soprattutto in questa città che è un crogiolo e intreccio di culture, fedi e riti. Tutto da venerdì 13 giugno si è come paralizzato, esattamente come ai tempi del Covid, e molto peggio del 7 ottobre di quasi due anni fa. È difficile capire i dinamismi della politica che soggiaciono a quelli della vita quotidiana, troppo spesso succube della prima, invece che essere di aiuto alla convivenza tra popoli e tradizioni.
Gerusalemme è la città che appartiene a tutti i popoli e chi la governa dovrebbe rendere possibile qui, in modo esemplare, come in nessuna altra parte del mondo, il dialogo e la pace di cui essa porta pure il nome [secondo alcune tradizioni significa “città della pace”, n.d.r.]. Invece la gente è qui semplicemente ‘costretta’ a vivere insieme. Pochi giorni fa tutti eravamo contro Israele a motivo di Gaza, oggi sono tutti pro Israele contro il regime iraniano. Chi ci capisce qualcosa? C’è un progetto che guida la storia di questi popoli e di queste regioni? È comunque pazzesco pensare che la geopolitica, la ridefinizione dei confini e i ruoli vengano stabiliti non dal dialogo, ma dalle guerre sempre più feroci e disumanizzanti.
Sono quasi al termine del mio anno sabbatico, anno speciale, un dono del Signore che mi ha chiamato qui; grato anche a coloro che mi hanno permesso di poterlo vivere e in questo modo. La tensione tra questi popoli ha accompagnato questi mesi ma, in questi giorni in particolare, tutto sembra precipitare in una guerra dentro la guerra, come per un terribile gioco. La mancanza di gruppi e di pellegrini mi ha permesso, grazie allo Studium Biblicum Franciscanum, di poter studiare; ho prestato servizio a comunità religiose e al Sepolcro per confessioni e celebrazioni; ho potuto condividere il servizio della carità per famiglie, bambini, con i beduini del deserto, con le suore dorotee all’istituto Effetà di Betlemme, ma oggi tutto questo non è possibile farlo. Siamo sempre in allerta, tra sirene, bunker e missili. Le chiese sono chiuse, la città vecchia è impenetrabile, tutto è blindato. Non si può nemmeno andare al Sepolcro a far servizio religioso. Le porte sono chiuse. Alcuni amici mi chiedono di rientrare in un modo o nell’altro. Ma i voli sono sospesi, i confini sono raggiungibili con fatica ed è rischioso farlo.
Come ho avuto modo di dire al vescovo Marco, ora è il momento della testimonianza più sicura, apparentemente inutile, e pur tuttavia, accanto allo studio, ai servizi e alla carità, la più necessaria per questa terra: la preghiera. Qui essa diventa un piccolo tesoro per i cristiani di qua, per il dialogo e la convivenza di questi popoli e per la pace. E se le circostanze non mi impongono di rientrare io resterò fino al termine del mio mandato. È quello che mi motiva a rimanere sino alla fine in questa terra: la vicinanza e la preghiera. Ma ho bisogno anche della vostra, perché uniti essa diventi più efficace per invocare la pace per la terra di Dio.
Papa Leone ha oggi [17 giugno 2025, n.d.r.] incontrato i vescovi italiani e nelle sue parole autentiche, profetiche, programmatiche, dono dello Spirito, ha detto: “È la relazione con Cristo che ci chiama a sviluppare un’attenzione pastorale sul tema della pace. Il Signore, infatti, ci invia al mondo a portare il suo stesso dono: “La pace sia con voi!”, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione. Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa”.
Accanto al servizio pastorale che mi verrà affidato al mio rientro, mi piacerebbe, nei modi che lo Spirito suggerirà, continuare a servire Gerusalemme e questa terra che ci appartiene, terra complessa e unica, così bisognosa di segni di speranza e di dialogo, fondamenti per la pace.