E’ il gran giorno di Biden. Stefano Albertini: “dovrà rammendare una tela profondamente lacerata”

Il gran giorno di Joe Biden è arrivato. Oggi in una Washington blindata, dopo i fatti di Capitol Hill, alle ore 12 (18 ore italiana) il presidente eletto e la vice Kamala Harris presteranno giuramento davanti al Congresso durante una cerimonia molto diversa e più contenuta rispetto al passato sia per le limitazioni dovute alla pandemia, sia per le ulteriori imponenti misure di sicurezza decise dopo l’assalto shock del 6 gennaio scorso.
Ma quali saranno le sfide principali per il 46° presidente degli Stati Uniti d’America che si insedierà in un Paese lacerato come non accadeva dalla Guerra civile di oltre 150 anni fa?
Abbiamo girato la domanda a Stefano Albertini, Direttore della Casa Italiana Zerilli-Marimò di New York e Docente di Italiano alla New York University che in questo periodo si trova però in Italia e seguirà l’insediamento di Biden dalla sua amata Bozzolo, il paese dove è nato e cresciuto. Prima però abbiamo chiesto ad Albertini, che è anche cittadino statunitense, di fare un passo indietro e tornare proprio al 6 gennaio.
Come ha vissuto quei tragici momenti? Quale é stato il suo primo pensiero?
Ci eravamo abituati ad aspettarci cose impensabili da Trump che, da questo punto di vista, stava battendo tutti i record negativi ma quello che abbiamo visto consumarsi al Congresso è stato un vero tentativo di sovversione. Anche se come tutti seguivo quel che accadeva dalla tv e da internet, subito ho iniziato a chiamare gli amici per tentare di capire meglio cosa stesse accadendo in America. Ero davvero sgomento di fronte a quel che vedevo, lo eravamo tutti.

Ma quanto abbiamo visto a Capitol Hill come fa a conciliarsi con quell’idea della più grande e longeva democrazia occidentale con cui tutti siamo cresciuti?
Si, siamo cresciuti con questo metro e quanto abbiamo visto ha trasformato questa illusione. Ciò credo sia potuto accadere perchè quello americano è un modello di democrazia che funziona secondo regole non scritte di civiltà, onestà e convivenza. La legge scritta come la stessa Costituzione americana del resto, proprio anche per il periodo in cui è nata, è “breve”, non prevede tutti quei meccanismi di tutela della democrazia come invece fa la Costituzione italiana. Prendiamo ad esempio quanto accaduto con la crisi di Governo di questi giorni e il premier Conte che si presenta prima alla Camera e poi al Senato per fare due discorsi molto simili. Si potrebbe pensare che uno dei due è un passaggio superfluo e invece non è così, perchè fanno parte anche questi di quei meccanismi di tutela che i Padri costituenti hanno creato per preservare con ogni mezzo la democrazia. Del resto quella italiana è una Costituzione che nasce dopo vent’anni di dittatura e gli stessi Padri costituenti avevano visto con i loro occhi come uno Stato liberale avesse potuto trasformarsi nel giro di poco tempo in un regime totalitario.
Negli Usa non è così, quindi se come accaduto con Trump vengono meno quelle regole di base della convivenza civile, vengono meno anche i fondamentali della democrazia. Con Trump, che per primo non si attiene alle regole, finisce che tutto salta e il risultato è quella folla scatenata mai vista prima. Del resto prima di Trump avevamo comunque avuto una “politica di gentiluomini” che con lui è stata cancellata. Pensiamo alle precedenti elezioni in cui c’è sempre stato il rito del concession speech, e della telefonata del candidato perdente all’avversario in cui gli riconosce la vittoria. E questo anche in elezioni molto sofferte, come nel 2000 con Al Gore e George W. Bush ma anche con lo stesso Trump e Hillary Clinton. Quest’ultima perse le elezioni nonostante avesse ricevuto quasi 3 milioni di voti in più.
Alla luce di tutto ciò, Biden da dove dovrà ripartire? 
Biden dovrà rammendare una tela che è stata profondamente lacerata, la stessa che Obama aveva ricamato prima dell’avvento di Trump la cui abilità è stata di riuscire a far credere a quella grande fetta di americani disillusi e in difficoltà, soprattutto per il lavoro che mancava, che lui era uno di loro. Lui, ricchissimo fin dalla nascita e con la possibilità di accedere a un mondo veramente elitario, ha capito istintivamente le pulsioni che venivano da queste persone ed è riuscito a farsi accreditare come il loro difensore individuando negli emigranti il primo nemico comune. La sua è stata senz’altro un’abilità, lo dico da studioso di Machiavelli, il quale sosteneva che in politica conta ciò che appare.
Vittorio Emanuele Parsi, uno dei politologi italiani più conosciuti, ha dichiarato che i democratici dovranno consolidarsi nei prossimi anni su una piattaforma che non potrà essere la pallida copia dei repubblicani, ad iniziare dai temi del lavoro. “L’idea che si possano tutelare i diritti del lavoro fuori da un’agenda progressista è la più grande delle illusioni possibili” dice Parsi. E’ d’accordo?
Biden ha davanti a sè un grande lavoro da fare ma è una persona molto esperta, da sempre vicina ai sindacati e al mondo lavorativo. Senz’altro lavorerà per uno sviluppo sostenibile e riprenderà in mano alcune tematiche come la riforma sanitaria di cui era stato artefice con Obama, e a proposito della quale aveva dimostrato una grande capacità di mediazione. Biden è infatti uomo di mediazione e compromesso, è senz’altro il più democristiano di tutti i politici americani, con rapporti importanti in Senato, anche tra i repubblicani, e questo lo aiuterà certamente nelle sfide importanti che si troverà ad affrontare.
Anche se prima ci ha fatto capire molto bene la differenza tra la democrazia negli Usa e in Italia, pensa che quanto accaduto il 6 gennaio a Washington possa servire in qualche modo da insegnamento per gli italiani?
Credo che quanto successo dovrebbe far capire ai politici italiani il senso della responsabilità per le loro parole e per come poi queste vengono interpretate: un linguaggio violento, incendiario mina la democrazia. E poi c’è la questione del rispetto. Giorgia Meloni, durante il suo intervento alla Camera dei deputati dopo il discorso di Conte si è sempre rivolta a quest’ultimo definendolo “avvocato”, mai “Presidente del Consiglio”. Credo che quando ci si rifiuta di rivolgersi al premier con il titolo che gli spetta vuol dire che si è di fronte alla deriva trumpiana. In democrazia ci sono dei ruoli che vanno rispettati, se non la si pensa allo stesso modo si può e si deve lottare perchè una persona non rivesta più quel ruolo in futuro ma fino a quando questo non accade quel ruolo va rispettato. Far finta che Conte non sia il premier italiano, significa di fatto non riconoscere le regole dell’alternanza, e questo é un pericolo sempre in agguato per la democrazia.