MANTOVA – Il “grigio” è una pratica largamente utilizzata nel mondo agricolo italiano e la provincia mantovana non è esente da questo fenomeno che consiste nel segnare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle realmente lavorate. Tradotto: tassazione soltanto sulla quota rilevata, quindi meno contributi da versare per l’impresa e un salario arbitrario nelle tasche dei braccianti. E una patina di legalità con cui aggirare i controlli.
E’ quanto emerge da “Cibo e sfruttamento”, il nuovo rapporto dell’associazione “Terra!”, presentato stasera nella sede del Consorzio Agrituristico Mantovano, con cui si fa luce sullo sfruttamento in agricoltura in Lombardia. Nei mesi scorsi in particolare, due giornalisti – Maurizio Franco e Filippo Poltronieri– e un fotografo –Giovanni Culmone – in coordinamento con l’associazione, hanno condotto un’indagine immersiva di campo sulle filiere dei meloni, IV gamma, e sui macelli dei suini. Obiettivo: indagare le nuove forme di intermediazione che dall’approvazione della legge 199/2016, anti caporalato, hanno sostituito il caporalato tradizionale nel settore agroalimentare nelle province di Mantova, Bergamo e Brescia.
IL LAVORO “GIRGIO”, LA PIAGA NELLE CAMPAGNE MANTOVANE
Anche nel caso della filiera del melone, il lavoro grigio è la piaga che sembra maggiormente in espansione. Si basa su un tacito – e spesso obbligato – accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il numero necessario ad accedere alla disoccupazione agricola. In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Quest’ultimo, dal canto suo, potrà godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Per le giornate che eccedono, sarà retribuito in modo informale (in nero). Così a fine anno, il salario complessivo del bracciante è il risultato della somma di tre voci: quella delle giornate segnate in busta paga, la quota data in nero dal datore di lavoro e la disoccupazione agricola.
I LAVORATORI COSTRETTI A RESTITUIRE IN CONTANTI PARTE DEL SALARIO RICEVUTO
“Il fenomeno è ancora altamente diffuso dalle nostre parti. Questo vale per tutte le colture, nonostante la tendenza generale delle aziende, ad oggi, sia quella di mettersi in regola”, spiega Ivan Papazzoni, sindacalista di Flai Cgil Mantova. Ma il grigio, a suo dire, contiene tante sfumature. Succede, ad esempio, che i lavoratori siano costretti a restituire in contanti parte del salario ricevuto. La modalità è la seguente: il datore di lavoro effettua il bonifico dello stipendio che rispetta gli standard contrattuali e ricalca le ore registrate in busta paga. Incassata la somma, il lavoratore preleva il denaro – all’incirca 400 euro di gabella – e lo consegna direttamente nelle mani dell’azienda. Lo scambio dei soldi così non è tracciabile. “Segnalazioni di questo tipo sono in calo. Ma continuano ad arrivare”, rimarca Papazzoni.
Ma lo sfruttamento spesso si tinge anche di nero. Le ispezioni effettuate dall’Ispettorato territoriale del lavoro di Mantova lo certificano. Nel corso dei controlli avvenuti nel 2022, l’ente ha radiografato la situazione di diciannove attività agricole produttrici di melone. Otto di queste sono risultate anomale. Al vaglio le posizioni dei lavoratori: su 110 braccianti individuati, 44 non avevano un contratto. Quindici erano senza documenti. Nel 2020, a Magnacavallo, un blitz dei carabinieri in due diverse aziende ha portato alla luce le storie di venti lavoratori, “buona parte arruolati in nero, e tra questi anche tre stranieri irregolari”
IL METICCIATO NELL’AGRICOLTURA MANTOVANA
Nel mantovano, le persone straniere sono distribuite geograficamente su base etnica, in relazione al radicamento delle varie comunità che costellano la provincia. I distretti di Viadana, ad ovest verso Cremona, e di Rodigo, a nord, vedono la presenza massiccia di pakistani e indiani, soprattutto dal Punjab. La zona meridionale che costeggia il fiume Po, attraversando località come Malcantone, Poggio Rusco e Magnacavallo, è a maggioranza marocchina. Ci sono anche albanesi, rumeni e bulgari che, però, non fanno riferimento a gruppi storicamente stanziati, ma sono in aumento rispetto agli anni precedenti.
Il comune di Sermide e Felonica è uno dei cuori pulsanti della comunità marocchina. I cittadini marocchini residenti sono 694 su 7.112 abitanti totali. Però “i moldavi, in questo caso, stanno facendo la parte del leone. Sono considerati più efficienti fisicamente e, stanno soppiantando progressivamente i marocchini, nonostante, dal punto di vista numerico, questi siano ancora preponderanti», dice l’assessore Paolo Calzolari. Stando alle analisi dell’associazione Lule, sono soggetti più ricattabili, flessibili ai carichi di lavoro imposti e quindi più appetibili per le imprese agricole. Il fenomeno è appurabile a Sermide e Felonica ma è evidenziato anche nelle altre zone.
LE COOPERATIVE “SENZA TERRA”
Secondo la sequela di interviste e testimonianze intercettate durante l’ indagine sul campo, le cooperative senza terra rappresentano oggi un modello di caporalato legalizzato dove, spesso, sono state favorite forme di intermediazione illecita, garantendo una parvenza di legalità.
Come funzionano? “Sono capeggiate perlopiù da cittadini stranieri, marocchini, moldavi e indiani, che intercettano e smistano i loro connazionali. Alcune cooperative stringono contatti con i lavoratori in patria e li portano poi in Italia a lavorare”, dice Ivan Papazzoni. Tali realtà sono definite “spurie” o “false” perché non sono improntate allo spirito mutualistico e comunitario proprio delle strutture cooperative. Nei fatti, sono “società contenitore” che fungono esclusivamente da serbatoi di braccia da immettere in diversi settori, tra cui l’agricoltura e l’edilizia. I vertici sono caporali schermati dall’identità collettiva e dalla Partita Iva.
Lo sfruttamento, generalmente, avviene in due modi: l’azienda agricola versa alla cooperativa il corrispettivo congruo, ovvero quello previsto dal contratto provinciale di categoria; la cooperativa, però, elargisce uno stipendio da fame ai lavoratori. Nel secondo caso, c’è la connivenza anche dell’azienda agricola che, di comune accordo con la cooperativa, tira fuori una cifra ben al di sotto della soglia salariale dovuta. E la cooperativa concretizza il proprio guadagno sulla disperazione dei braccianti. Il salario di piazza si aggira attorno ai 5 euro l’ora a fronte dei 9 euro e 44 centesimi previsti1, per quanto riguarda i meloni.
Le denunce dei sindacati e l’azione di monitoraggio delle forze dell’ordine, soprattutto del nucleo Carabinieri dell’Ispettorato territoriale del lavoro, hanno assottigliato la platea delle cooperative “autoctone” del mantovano.
STIPATI IN POCHI METRI QUADRATI
Nelle fasi più acute del ciclo produttivo l’imprenditore ha bisogno di forza lavoro immediata e flessibile. Le cooperative coagulano queste aspettative, occupandosi del trasporto nei campi, dell’alloggio e del cibo. Molti braccianti convivono in uno stesso appartamento in condizioni estremamente precarie. Otto o nove persone stipate in pochi metri quadri. Il costo per un posto letto è di 100 euro. Non ci si può permettere di più. L’affitto della casa è generalmente intestato ad un’unica persona – il caporale o il referente della cooperativa – che incassa le quote traendone un guadagno. Alcune aziende, invece, mettono a disposizione degli alloggi di loro proprietà, detraendo il canone dal salario. Sul fronte abitativo, esistono anche situazioni totalmente illegali.
A Volta Mantovana i carabinieri hanno sgomberato un capannone, occupato da lavoratori stranieri. Un cubo di cemento scrostato su un’altura a pochi passi dal centro abitato. Il presunto caporale gestiva le loro esistenze indirizzandole, dal lunedì al venerdì, nei campi di zucchine. E il sabato e la domenica, invece, negli allevamenti dei polli.
Ph. Terra! Giovanni Culmone