MANTOVA – Chiesa di San Martino in via Pomponazzo affollata oggi in occasione del pellegrinaggio dalla Val Rendena a Mantova per la festa liturgica. La messa cantata è stata celebrata da don Stefano Maffei. Una settantina di fedeli provenienti dalla valle del Trentino, oltre a numerosi mantovani, si sono ritrovati davanti all’altare per rendere omaggio agli antenati che a partire dal 1.600 emigrarono nel mantovano per lavoro. Al termine della cerimonia c’è stato lo scambio dei doni tra i sindaci di Mantova Mattia Palazzi e di Pinzolo Michele Cereghini. Presenti anche la presidente del consiglio comunale di Pinzolo Monica Bonomini, tutta la Giunta del Comune trentino, e l’assessore al bilancio del Comune di Poggio Rusco David Canossa. E’ intervenuto anche l’ex primario Marco Collini tra i primi a favorire l’amicizia tra Mantova e Pinzolo, un legame che sopravvive nei secoli. Nei loro discorsi, i sindaci Palazzi e Cereghini hanno ricordato la storia comune tra le due comunità basata sui valori della tolleranza e della solidarietà. Un omaggio particolare è stato rivolto pure ad Emma che ha dedicato gran parte della sia vita a custodire la chiesa di San Martino e che tra pochi giorni compirà 101 anni.
ECCO COME NASCE IL LEGAME TRA MANTOVA E I RENDENESI
Da trent’anni, nel giorno di San Martino (11 novembre) uomini e donne di Pinzolo e della val Rendena scendono a Mantova per rinnovare antichi legami con la città dei Gonzaga e con gli eredi dell’alta valle della Sarca.
Prima che arrotini e ramai, “molète” e “parolòti”, andassero per il mondo a trascinare con la “slàifera” (la carretta con la mòla) la loro arte e a parlar tra di loro il “tarón”, un gergo di mestiere, dalla val Rendena vi fu una lunga migrazione stagionale.
Nel 1672, Michel’Angelo Mariani scriveva che dalla val Rendena “… in tempo che le Nevi ostano il lavoro de’ Campi, buona parte de gli Habitanti, gente la più bassa e povera, vanno a Mantova et altre città d’Italia a capàr la vita, et ogni anno si trasportano le famiglie intere”.
Da più di un secolo la Mantova dei Gonzaga era uno degli approdi dei migranti rendenesi. Tant’è che, nel 1604, i Gonzaga avevano concesso agli uomini della comunità di Pinzolo l’uso di un altare e il diritto di sepoltura nella chiesa di San Martino, in prossimità del Porto Catena. Vicino all’approdo, cioè, delle zattere e dei tronchi di larice trasferiti dalla val Rendena. Le “bóre” erano trascinate dagli animali attraverso il passo del Duron fin sul lago di Garda; da qui fluitate sull’acqua fino in pianura e, lungo il Mincio, sino a Mantova.
Il medico-chirurgo di Pinzolo, Marco Collini (1948), per 26 anni Direttore del dipartimento di chirurgia maxillo-facciale dell’ospedale “Carlo Poma” di Mantova, trent’anni fa ha recuperato una pagina dimenticata di quella protoemigrazione.
Racconta: “Fu un’emigrazione stagionale poi trasformatasi in stanziale. Scendevano a Mantova e in pianura Padana gli “sciapìn”, gli spaccalegna, ma anche maestri d’ascia che scolpirono i soffitti a cassettoni dei palazzi dei nobili; altri facevano i facchini, i “garavani” (trasportatori). Le donne servivano a palazzo o facevano le sguattere nelle residenze signorili”.
In due secoli, almeno 194 defunti, oriundi di Rendena, furono sepolti sotto l’altare nella chiesa di San Martino. Tale pratica durò fino al 1804 quando, con un editto, Napoleone impose anche ai territori italiani il trasferimento dei cadaveri fuori dalle città.
I “rendenèri” formavano, insomma, una comunità. Tant’è che nel Libro della chiesa sono segnati, a partire dal 1659, i battesimi, matrimoni e funerali di codesti “Huomini Forastieri”. Avevano i cognomi: Collini, Maffei, Bonaffini, Marchi, Binelli, Ognibene. Tutti della comunità di Sopracqua (Pinzolo).
Subirono anche loro il “sacco di Mantova” dei Lanzichenecchi condotti dal generale di Trento, Mattia Galasso, nell’estate del 1630. Anno di peste e di devastazione, coi banchi dei pegni degli ebrei mantovani saccheggiati e dispersi. Poi il matrimonio fra l’imperatore dei tedeschi, Ferdinando II, con Eleonora Gonzaga ebbe la meglio. Ritirate le truppe, nel 1631 Mantova fu restituita ai Gonzaga. E dalla val Rendena riprese il flusso dei migranti. Tra gli altri, nel XVII secolo approdò nel mantovano un valente scultore, Lorenzo Aili (verosimilmente si chiamava Villi) da Fisto.
Nel frattempo i cognomi di Pinzolo si mischiarono con altri oriundi della val Rendena: Alberti, Sartori, Botteri, Tisi, Nella, Beltrami, Frizzi, Maestranzi, Maganzini. Per esempio, nel XIX secolo, a Mantova, migravano gli abitanti di Strembo a lavorare e vendere insaccati. Scriveva (1951) Angelo Franchini: “[restavano a Mantova] dai Santi all’inizio di Quaresima; terminato il quale periodo, risalivano alla loro valle, attendendo, per il resto dell’anno, al lavoro dei campi e all’allevamento”.
I rapporti fra la valle trentina e il mantovano proseguirono per tutto l’Ottocento: legname contro derrate alimentari. Nel corso del “secolo breve”, travolto da due guerre mondiali, i legami si affievolirono.
Furono riavviati nel 1975 dal medico Aldo Salvadei, mantovano di nascita, rendenese per l’origine dei genitori, il quale fu per molti anni primario dell’ospedale infantile di Trento. A lui si deve la riscoperta dell’altare con il cartiglio “Altare Comunitatis Pinzoli Rendene Tridentine 1659” che fu restaurato nel 1991, grazie alla Confraternita di San Gerolamo “dei battuti e flagellanti” di Pinzolo.
Due secoli prima, sulla pietra tombale, nel pavimento della chiesta di san Martino, era stata scolpita l’indicazione: “Tumulum Comunitatis Pinzoli Rendene Tridentine restauratum annum 1756”.
L’ultimo emigrato a Mantova, ma con solide radici a Pinzolo, dove torna di frequente, è per l’appunto il prof. Marco Collini, chirurgo e già docente all’università di Milano, il quale, assieme ad altri amici (Giuseppe Ciaghi, Claudio Cominotti) ha promosso il restauro dell’altare (restauro curato da Gilberto Cereghini). Da qui il gemellaggio che da trent’anni unisce Pinzolo e Mantova e che l’11 novembre, nel giorno di San Martino, porta a Mantova oltre cento persone.
Nel giorno che un tempo era deputato al pagamento degli affitti e al trasloco dei mezzadri (“far San Martin”, in Lombardia ha ancora questo significato), gli eredi della fame di un popolo della diaspora tornano sulle orme dei nonni. E rammentano ai barbari del “mare nostrum” gesti di solidarietà e di accoglienza. Come quello del soldato di Tours, nella Gallia, il quale (era l’anno 335) non esitò a tagliare il mantello per condividerlo col mendicante che tremava per il freddo.
Alberto Folgheraiter