MANTOVA – Giovane, bella, determinata e con le idee chiare. A soli 26 anni, Chloe Vescovi, nata a Mantova e cresciuta a Curtatone, è tra le protagoniste di “Nathan K.”, la nuova serie comedy prodotta da Rai Fiction, Elsinore Film e Associazione Culturale Premio Solinas, disponibile su RaiPlay.
Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche all’Università di Milano-Bicocca, ha frequentato l’Acting Studio dell’acting coach Michael Rodgers e il CSC Lab Acting Milano del Centro Sperimentale di Cinematografia – Sede Lombardia, oltre alle accademie di danza LaUrban e Moma Milano. In “Nathan K.” Chloe interpreta Diana, giovane milanese di origini miste, alle prese con la ricerca della propria identità e con i paradossi dell’Italia di oggi. L’abbiamo incontrata per farci raccontare il suo personaggio, il set e la sfida di essere un’attrice emergente in Italia.
Chi è Diana e cosa ti ha colpito di lei quando hai letto il copione?
Quando ho letto il copione, Diana mi è sembrata subito una persona vera. È nata a Milano da madre italiana e padre camerunense: una giovane donna concreta, appassionata e piena di determinazione. Sta completando la pratica forense per diventare avvocato, ma ha scelto di farlo non in uno studio legale ma in un Caf, e allo stesso tempo aiuta nel ristorante di cucina africana della sua famiglia. Ha anche un fidanzato famoso, scrittore e influencer, con il quale però non è chiaro se sia davvero felice. In lei ho ritrovato molti tratti delle ragazze che ho conosciuto durante gli anni in cui ho vissuto a Milano: indipendenti, determinate, ma anche molto legate ai propri valori.
Come descriveresti il rapporto tra Diana e Nathan? È una storia d’amore, una complicità o una presa di coscienza?
Direi che è prima di tutto una presa di coscienza, quasi imposta dal destino. Diana è una “seconda generazione”, quindi non ha vissuto direttamente i problemi dell’immigrazione, ma l’incontro con Nathan la costringe a guardare le cose da una prospettiva nuova. Attraverso di lui riscopre una parte di sé e di una storia collettiva che non conosceva a fondo. Poi sì, c’è anche una certa chimica tra i due, ma la relazione va oltre, è un incontro che cambia entrambi.
La serie è una commedia atipica, senza battute scritte ma con una forte autenticità. Com’è stato recitare in un contesto del genere?
È stata un’esperienza bellissima. Il copione era fresco, scritto da quattro giovani sceneggiatori che avevano in mente questa storia da tempo e l’hanno costruita coralmente. Con il regista abbiamo poi lavorato moltissimo in prova, creando un clima di fiducia e libertà. Nessuno si preoccupava se cambiavamo una parola o improvvisavamo una battuta: l’importante era che il risultato restasse vero. È nato così un lavoro molto organico, condiviso, e per questo autentico.
“Nathan K.” tocca con leggerezza temi seri come identità, razzismo, cittadinanza e burocrazia. Cosa ti ha lasciato, come attrice e come persona?
Come attrice mi ha colpito il modo in cui temi così delicati possano arrivare al pubblico anche attraverso la comicità. Come persona, invece, è stato un percorso di rivelazione. Anch’io ho in parte origini straniere, ma sono cresciuta completamente immersa nella “mantovanità”. Interpretare Diana mi ha fatto riflettere su quanto certe dinamiche siano ancora presenti nella realtà. La serie mostra il razzismo in tutte le sue forme, anche quelle più sottili: ad esempio, un personaggio africano che lavora al Caf ma non sopporta gli arabi. È un modo intelligente per ricordarci che il pregiudizio può annidarsi in chiunque, indipendentemente dalle origini.
Essere un’attrice emergente oggi in Italia: più opportunità o più ostacoli?
È un mestiere bellissimo ma pieno di difficoltà. Avendo lavorato anche in produzioni straniere, statunitensi e inglesi, mi sono resa conto di quanto all’estero la figura dell’attore sia considerata una professione a tutti gli effetti. In Italia, invece, spesso viene vista come un hobby. Anche a livello contrattuale le differenze sono enormi: da noi l’attore è pagato “a pose”, cioè per ogni apparizione nel film, mentre negli Stati Uniti si viene retribuiti a settimana, come qualunque altro lavoratore. Questo fa capire quanto poco sia riconosciuta la continuità di questo mestiere. Io, nonostante abbia iniziato da poco, ho avuto già la fortuna di avere un ruolo da coprotagonista, ma conosco bene anche l’altra faccia della medaglia: servirebbe un riconoscimento maggiore del mestiere.
C’è un ruolo dei tuoi sogni che speri un giorno di poter interpretare?
Sì, da sempre sogno di interpretare una spia in un film d’azione. Mi piacerebbe anche lavorare in una biografia dedicata ad esempio a una grande cantante, come Whitney Houston. In questi ruoli non inventi un personaggio, ma lo studi, lo comprendi, e gli dai nuova vita. Sarebbe una sfida meravigliosa.