MANTOVA – C’è un filo che unisce la voce di Leo Nucci ai palazzi e alle piazze di Mantova: è la musica di Verdi, quella che da oltre mezzo secolo accompagna la sua vita e che proprio qui, tra il Mincio e il fascino dei Gonzaga, trova una delle sue case più autentiche. ‘Rigoletto’, il dramma umano per eccellenza, parla anche la lingua di questa città, culla del melodramma e di un’arte che intreccia musica, pittura e poesia. Per Nucci, ogni incontro con Mantova è un ritorno alle radici di quell’universo artistico dove la voce, la cultura e l’emozione diventano un tutt’uno.
Sarà così anche venerdì prossimo quando Nucci, dalle ore 19, sarà protagonista nella Sala di Manto di Palazzo Ducale del primo appuntamento degli Aperitivi d’Arte di Oficina OCM, con “Il mio universo è in te, Mantova”: un incontro tra musica, memoria e passione, nei luoghi che da sempre custodiscono l’anima del suo Rigoletto.
Maestro Nucci, torna a Mantova con “Il mio universo è in te, Mantova”, un titolo che racchiude già un forte legame con la città. Cosa rappresenta per lei questo ritorno?
Ho un legame molto profondo con Mantova. Ricordo ancora quando nel 1975 mi chiamarono per Il barbiere di Siviglia, che poi interpretai all’inizio dell’anno successivo. Tra i tanti titoli che ho portato in scena a Mantova, Luisa Miller occupa un posto speciale: è stata un’esperienza che mi ha segnato profondamente. Poi sono venute La Bohème, Don Pasquale e tante altre opere che ricordo con affetto. Ho avuto – e ho ancora – amici veri qui, come Enzo Dara, o Massimo Repellini, violoncellista con cui ho condiviso anni di musica. E nel tempo sono arrivati anche riconoscimenti che porto nel cuore: il Premio “Rigoletto”, il “Campogalliani” e quello intitolato proprio al caro Enzo Dara. Mantova per me è tutto questo: arte, amicizia, e naturalmente… Rigoletto.
Nei luoghi del Rigoletto mantovano, cosa sente di più forte: la suggestione dell’arte o quella della memoria personale?
Senz’altro la suggestione dell’arte, intesa nella sua totalità. Pensiamo a Palazzo Ducale, dove venerdì faremo l’incontro: un autentico gioiello, come lo è tutta Mantova, città di Virgilio e culla del melodramma, grazie a Monteverdi. Qui ogni cosa parla di arte – pittura, scultura, musica – e non si può prescindere da questo. Se un cantante si limita a eseguire senza immergersi in quel contesto culturale, rischia di diventare un pappagallo, anche se ha una voce bellissima. Il mio piacere è sempre stato quello di approfondire, capire dove mi trovo, respirare l’arte e la cultura di un luogo.
In oltre cinquant’anni di carriera centinaia di recite come Rigoletto: come si convive con un personaggio così totalizzante?
Ho avuto l’onore e l’onere di cantare Rigoletto in circa seicento recite, ma tra prove e altre occasioni avrò eseguito la partitura quasi quattromila volte. Tuttavia non ho mai voluto far diventare Rigoletto Leo Nucci: ho sempre cercato di rivivere le emozioni nel momento esatto dell’esecuzione. Ogni volta è diversa, perché cambiano le persone, i teatri, le acustiche.
Ricordo un Rigoletto a Mantova con mia moglie (il soprano Adriana Anelli ndr) che fu un successo tale da spingere l’impresario a ripeterlo la sera successiva, cancellando un altro spettacolo già in cartellone. Il pubblico riempì il teatro in poche ore! E questo grazie anche all’emozione vissuta la sera della prima recita. O ancora, al Teatro Real di Madrid, dove per la prima volta nella storia del teatro fu concesso un bis, e fu io a farlo. La regina madre Sofia venne nel camerino dove eravamo io e mia moglie e, con le lacrime agli occhi, disse: “Ho pianto per l’emozione”.
Ecco, tutto questo per dire che il motore dell’opera è l’emozione, e ogni emozione è unica.
L’opera può ancora parlare ai nostri tempi, senza forzature?
L’opera parla benissimo ai nostri tempi, non serve attualizzarla a tutti i costi. Le passioni che racconta sono eterne. Pensiamo a Rigoletto: la vendetta, la colpa, la disperazione dopo la perdita della figlia. Quando Rigoletto esclama “Ah, la maledizione!”, sa di essere lui la causa della tragedia, ma non si assume la responsabilità e dà la colpa al destino. È un’intuizione geniale del librettista Francesco Maria Piave, perché gli uomini, allora come oggi, non vogliono assumersi le proprie responsabilità.
Due anni fa ha ricevuto il Premio Enzo Dara, dedicato al grande basso buffo mantovano, suo amico e collega. Che ricordo conserva di lui?
Enzo mi manca tantissimo. La nostra era un’amicizia vera, piena di affetto e di risate. Condividevamo anche la passione per il ciclismo: lui era bartaliano, io coppiano. Un giorno mi regalò un quaderno con tutti gli articoli e le foto di Fausto Coppi: sopra scrisse “Al Coppi dei baritoni”. Lo conservo ancora.
Abbiamo condiviso palcoscenici memorabili: ero con lui quando debuttò al Metropolitan di New York nel Barbiere di Siviglia, e insieme abbiamo portato lo stesso titolo anche in Giappone, diretti da Abbado. Abbiamo inciso L’elisir d’amore con Pavarotti e Enzo ha firmato la regia di diverse opere che ho interpretato. Ma, più di tutto, il nostro era un legame forte, autentico, Enzo era una persona splendida, un artista di cultura profonda e un amico che porto sempre con me.