9/11, le immagini si rincorrono in queste ore sugli schermi a ricordare quel giorno di trent’anni fa che cambiò la storia, un punto di non ritorno che dimostrò che l’impossibile diventava possibile.
I giorni di inizio novembre ’89 trascorrevano per me piuttosto tranquilli. Avevo concluso tutte le incombenze che mi avrebbero permesso, di lì a poco, di partire per un lungo periodo di studio oltre Atlantico e aspettavo impaziente quel momento atteso da anni.
Ricordo bene luogo e ora dove ho appreso della “caduta del muro” e ognuno di noi credo lo ricordi, esattamente come tutti ricordiamo dove eravamo l’11 settembre e, per chi non è giovanissimo, la sera del primo passo dell’uomo sulla luna.
E ricordo quell’amico, di una decina d’anni più anziano di me che aveva partecipato alla pagina tormentata del ’77 in Italia, il quale guardando la televisione, si girò e mi disse: “ma la tua che sottospecie di generazione è? Sei qui senza impegni di studio o lavoro particolari e non ti viene in mente di prendere un treno e andare là dove sta passando la storia? Potessi, io sarei già partito”.
Detto, riflettuto e quasi fatto. Il tempo di convincere un’amica a fare il viaggio con me, la conta dei soldi per vedere se bastavano anche perché in famiglia nessuno doveva sapere di quell’avventura, e la notte seguente ero su un treno, direzione Berlino.
Arrivammo in una città in fermento, sommersa da una massa umana fatta di sorrisi, urla gioiose, canti, emozioni, voglia di rivincita. Sudditi che tornavano cittadini e abbracciavano chi, quella libertà conquistata, aveva potuto viverla sempre.
Era il sogno che diventava realtà di quelle parole scandite il 26 giugno 1963 davanti a un muro che non divideva una città ma il mondo intero, da un John Kennedy che si fece berlinese dicendo: “tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano sono cittadini di Berlino”.
Era la storia che “espugna il comunismo come una patetica Bastiglia e brucia i fantasmi del passato: le svastiche, i gulag, le spy stories di Le Carré con l’immancabile Check Point Charlie….” scrisse anni dopo Enzo Bettiza.
Fu una lezione di vita e non smetterò mai di ringraziare quell’amico che mi ha permesso di viverla, di poter dire oggi con orgoglio “c’ero anch’io” e non solo per il frammento di muro che come tutti mi sono messa nello zaino.
Chissà che forse non dipenda proprio da quei magici giorni berlinesi se negli anni, partecipando a convegni e dibattiti, ho sempre preferito come data il 9/11 all’11/9 per identificare il vero spartiacque della storia. E non solo perché la seconda, con il suo bagno di violenza, ha annientato il sogno di Berlino tra la polvere, rossa di sangue, delle Torri di Manhattan.
L’11/9 si rialzava un muro da cui ne sarebbero sorti tanti altri mentre si dissolveva l’illusione di una nuova stagione di libertà e benessere per il mondo intero nata dodici anni prima sotto la porta di Brandeburgo.
Neanche i muri più solidi si dice possono bloccare idee e persone. Lo diceva nel ’96, proprio sotto quella porta, anche Giovanni Paolo II, tra i principali artefici del crollo del blocco sovietico, mentre dichiarava che “l’uomo è chiamato alla libertà”.
Ma quello di Berlino era un muro artificiale che aveva diviso uomini e donne che condividevano tutto: storia, ricordi, cultura e speranze. I primi vent’anni del nuovo millennio ci hanno invece consegnato altri muri, spesso frutto di secoli di culture diverse che, se ignorate, portano inevitabilmente a un rifiorire delle ideologie e a una loro prevaricazione sui valori della democrazia. I nostri giorni insegnano, con l’indebolimento sempre più evidente dei due principi su cui l’Europa si era fondata: responsabilità e solidarietà. Credo che solo rinsaldando la prima, anche con fermezza e regole certe, si possa tentare di recuperare la seconda.
Non sarà facile ma ne vale la pena. Ce lo hanno detto tanti anni fa i Pink Floyd con l’indimenticabile ‘The Wall’: “non è facile gettare il nostro cuore oltre quel maledetto muro. Ma un giorno mano nella mano lo attraverseremo”.