L’intelligenza artificiale non è più un fenomeno riservato alle grandi aziende tecnologiche: sta trasformando il lavoro, la formazione e persino il modo in cui le imprese comunicano e prendono decisioni. Ma come si può governare questa rivoluzione senza perdere la centralità dell’uomo e del pensiero strategico?
Ne parliamo con Arnaldo De Pietri, mantovano, consulente di strategie di comunicazione e intelligenza artificiale, fondatore di ADP LAB. Con oltre 35 anni di esperienza nel settore, accompagna aziende, liberi professionisti e istituzioni nella trasformazione digitale.
È autore dei libri “Comunicare l’Innovazione” e “Intelligenza Artificiale per il Business – 100 soluzioni dalla teoria alla pratica”, e oggi è considerato tra i principali esperti italiani nella divulgazione e applicazione dell’AI al mondo del lavoro e dell’impresa.
Benvenuto, la tua carriera ha attraversato l’evoluzione tecnologica nella comunicazione, dalla macchina da scrivere ai social media. Oggi sei in prima linea nella rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale. Come si conciliano oltre 35 anni di esperienza con un “terremoto” tecnologico come l’AI?
È un’epoca incredibilmente affascinante. La mia esperienza ultra-trentennale mi aiuta a separare il fumo dall’arrosto. Oggi l’AI scrive, analizza, automatizza ed evolve a una velocità pazzesca, ma c’è un punto cruciale che non cambia: la strategia, l’anima della comunicazione e del business, quella resta umana. L’esperienza permette di capire dove l’AI può davvero potenziare un business o un’attività, senza spegnere la scintilla creativa e strategica che fa la vera differenza. È una sinergia tra l’ingegno umano e la potenza di calcolo.
Partiamo da un dato che emerge dal Global AI Jobs Barometer di PwC: in Italia le l’offerta di posizioni lavorative che richiedono competenze AI sono passate da 3.000 nel 2018 a 30.000 nel 2024. Cosa sta succedendo realmente nel mercato del lavoro italiano?
Sta succedendo che mentre discutiamo se l’AI ci ruberà il lavoro, il mercato ha già deciso: è richiesto chi sa usarla. Il dato più interessante non è solo la crescita numerica delle offerte di lavoro che richiedono competenze AI – parliamo di un aumento del 900% in sei anni – ma il fatto che questa domanda attraversa tutti i settori. Il manifatturiero, che rimane il nostro settore trainante con il 16% delle offerte di lavoro totali, sta integrando l’AI nei processi produttivi. l’Information & Communication guida la richiesta specifica di skill AI con il 4,6% delle posizioni. Persino agricoltura e PA mostrano crescite significative. L’AI non è più “roba da tech company”, è ovunque.
Il report PwC mostra che i ruoli più esposti al cambiamento portato dall’AI hanno visto una crescita del 176% tra 2019 e 2024, con Chief executives e senior officials addirittura al +600%. Sembra controintuitivo: più un ruolo è esposto all’AI, più cresce la domanda?
È il paradosso che molti non colgono. L’AI non cancella ruoli, li amplifica. Un CEO che usa l’AI per analizzare scenari complessi, processare dati di mercato in tempo reale, simulare decisioni strategiche, diventa esponenzialmente più efficace. Non è sostituito, è potenziato. Lo stesso vale per tutti i ruoli ad alta esposizione AI. Il punto è che questi professionisti non devono restare fermi a guardare e subire la tecnologia ma cavalcarla. E infatti le competenze richieste per questi ruoli cambiano il 95% più velocemente rispetto ai ruoli meno esposti. È una trasformazione continua, non una sostituzione. Le faccio un esempio, prendiamo un direttore commerciale, oggi esistono applicazioni AI che sono in grado di svolgere ricerche di mercato, segmentazione dei target, individuazione e profilazione dei potenziali clienti, sino all’invio automatico di messaggi personalizzati con la creazione dell’offerta più efficace per convertire i leads in clienti. Tutti questi strumenti possono potenziare enormemente l’attività di un direttore commerciale ma occorre che la sua preparazione nell’utilizzo di questi strumenti sia costante perché evolvono molto velocemente.
Quindi insieme al lavoro evolve anche il ruolo di chi lo svolge?
Esattamente, il lavoro non sparisce, si trasforma e da esecutori diventiamo “manager” che gestiscono assistenti AI. È un cambio di paradigma mentale e chi si chiude al cambiamento resterà nel migliore dei casi una figura perfettamente attrezzata per affrontare un mondo che però non esiste più. Chi invece impara a dialogare con l’AI, chi saprà farne un’alleata, non solo non perderà il lavoro ma lo vedrà potenziato.
Lei è stato uno dei primi a lanciare l’allarme “shadow AI” come uno dei rischi principali nelle aziende italiane. Di cosa si tratta esattamente?
È uno dei fenomeni legati all’AI più diffuso e meno discusso. Secondo un report realizzato dalla Boston Consulting Group (BCG), condotto su un campione di 10.600 interviste in 11 differenti Paesi, in Italia almeno il 54% dei dipendenti utilizzerebbe strumenti AI senza autorizzazione e monitoraggio aziendale. ChatGPT per scrivere mail, Claude per analizzare documenti, Perplexity per ricerche di mercato. Tutto di nascosto. Il problema non è l’uso in sé – anzi, dimostra proattività – ma il fatto che tutto questo avviene senza protocolli di sicurezza, senza formazione, con rischi enormi per dati sensibili, conformità alle normative e reputazione dell’azienda o della pubblica amministrazione. Ho visto contratti riservati finire in ChatGPT, strategie aziendali processate da AI pubbliche. Un disastro annunciato che in molte aziende viene sottovalutato o addirittura ignorato.
Come dovrebbero reagire le organizzazioni?
Con realismo e formazione, non con divieti. Prima di tutto occorre accettare che sta già succedendo. Poi creare policy chiare su cosa si può fare e con quali strumenti, fornire piattaforme AI aziendali sicure e in particolare formare tutti, dal CEO all’ultimo assunto, sulle opportunità e sui rischi e creare almeno un team interno con un addestramento più avanzato all’utilizzo dell’AI nell’ambito di specifici flussi di lavoro. La formazione all’AI non è più un nice-to-have, è sopravvivenza aziendale. Le aziende e i liberi professionisti che stiamo accompagnando in questo percorso vedono aumenti di produttività fino al 40%, ma soprattutto trasformano un rischio in vantaggio competitivo.
Il concetto di Industria 5.0 pone l’uomo al centro. Come si concilia con l’automazione crescente?
L’Industria 5.0, così è chiamata la quinta rivoluzione industriale, è la risposta a chi teme la disumanizzazione del lavoro. Mentre l’Industria 4.0 puntava all’automazione e la digitalizzazione, la 5.0 riconosce che il valore viene dalla sinergia uomo-macchina. Il Piano Transizione 5.0, con 6,3 miliardi stanziati dal Governo per incentivare gli investimenti in AI nel biennio 2024-2025, riguarda proprio questo: tecnologie che potenziano l’umano, non che lo sostituiscono. Prendiamo i cobot, robot collaborativi che lavorano fianco a fianco con gli operai: assumono i compiti pericolosi o ripetitivi, lasciando all’uomo decisioni complesse e controllo qualità. Il risultato? Meno infortuni, più soddisfazione lavorativa, maggiore produttività.
Un altro tema sul quale lei insiste è la distinzione tra “competenze” e “abilità”. Perché questa distinzione è cruciale?
Le competenze codificabili sono conoscenze tecniche replicabili: compilare un modulo, analizzare un dataset, tradurre un testo. L’AI le sta assorbendo velocemente. Le abilità di giudizio sono capacità intrinsecamente umane: scegliere le priorità, dare senso ad un’azione, comprendere il contesto, leggere il non detto in una negoziazione, intuire un’opportunità di mercato, costruire fiducia con un cliente, gestire una crisi con empatia. Un commercialista del futuro non compilerà dichiarazioni – lo farà l’AI in pochi secondi. Ma solo il professionista saprà interpretare normative ambigue, consiglierà strategie fiscali considerando il contesto familiare dell’imprenditore, costruirà relazioni di fiducia pluriennali. Se non distinguiamo, rischiamo di formare le persone su ciò che la macchina farà meglio e trascurare ciò che solo noi possiamo offrire. In sintesi: automatizziamo il ripetibile, alleniamo il giudizio.
Uno degli aspetti più controversi della sua visione riguarda l’educazione. Lei sostiene che dovremmo insegnare AI già alle elementari.
Abbiamo visto cosa è successo con i social media: li abbiamo messi in mano ai ragazzi senza educarli. Risultato? Cyberbullismo, dipendenze, distorsione della realtà. Con l’AI stiamo facendo lo stesso errore, ma le conseguenze saranno peggiori. Non parlo di insegnare a programmare, ma di sviluppare pensiero critico: come verifico se un’informazione generata dall’AI è vera? Quali sono i bias degli algoritmi? Quando posso fidarmi e quando no? È l’alfabetizzazione del XXI secolo. Se non lo facciamo, cresceremo generazioni che useranno l’AI come una scatola magica, senza capirne meccanismi e limiti e quindi subendone l’influenza in modo passivo e acritico. Ma guardi, questo è un rischio anche per gli adulti di ogni età.
I dati mostrano che il manifatturiero italiano resta forte, con il 16% della domanda di lavoro totale. Come sta cambiando questo settore con l’AI?
Il manifatturiero italiano sta vivendo una rinascita grazie all’AI. Non parliamo solo di robot in fabbrica, ma di intelligenza distribuita: manutenzione predittiva che previene guasti costosi, controllo qualità con computer vision che individua difetti invisibili all’occhio umano, ottimizzazione della supply chain che riduce sprechi e tempi morti. Ci sono aziende meccaniche che hanno ridotto i fermi macchina del 60% grazie alla manutenzione predittiva. Altre che hanno aumentato la qualità percepita dai clienti usando l’AI per personalizzare i prodotti. Il Made in Italy può diventare il Made in Italy 5.0: artigianato potenziato dalla tecnologia.
Qual è l’errore più comune che vede nelle aziende che approcciano l’AI?
Partire dalla tecnologia invece che dal problema. Comprano l’ultimo tool AI perché “bisogna averlo”, senza chiedersi: quale problema risolve? Come si integra nei nostri processi? Chi lo userà e con quali competenze? È come comprare una Ferrari per andare a fare la spesa. L’approccio corretto è esattamente l’opposto: mappare i processi, identificare i colli di bottiglia, e poi scegliere la tecnologia adatta. A volte la soluzione non è nemmeno l’AI, ma una semplice automazione o una riorganizzazione del workflow.
Consigli pratici: da dove inizia un’azienda o un professionista che vuole adottare l’AI?
Ottima domanda. L’approccio che suggeriamo è sempre graduale e strutturato. Primo passo: fare un’analisi delle opportunità. Quali processi nella tua azienda potrebbero beneficiare dell’AI? Amministrazione? Marketing? Produzione? Customer care? Non serve rivoluzionare tutto subito. Secondo passo: quello che chiamo “alfabetizzazione all’AI”. Prima di implementare strumenti, forma le persone. Fai capire cosa può fare l’AI, cosa non può fare, quali sono i rischi. Questo previene la shadow AI di cui parlavamo e crea una cultura aziendale pronta al cambiamento. Terzo passo: parti con un progetto pilota. Scegli un’area circoscritta, usa piattaforme esistenti con investimenti controllati. Impara a gestire gli strumenti, raccogli feedback, misura i risultati. Quarto passo: scala gradualmente. Con i primi risultati in mano, puoi espandere l’adozione. Ma sempre con formazione continua e attenzione alla sicurezza dei dati.
L’AI deve essere compresa a livello strategico, non solo tecnico.
Come vede il ruolo della pubblica amministrazione in questa trasformazione?Decisivo e in ritardo. I comuni, le province, le regioni dovrebbero essere in prima linea nel governare questa transizione, non solo digitalizzando i servizi ma formando i cittadini, creando spazi di sperimentazione sicura, definendo linee guida etiche. Immagini cosa potrebbe fare un comune che usa l’AI per ottimizzare il trasporto pubblico, prevedere le esigenze di manutenzione urbana, personalizzare i servizi sociali, sviluppare contenuti informativi in modo tempestivo e in tono con i tanti target, dare risposte concrete e chiare agli utenti evitando che si perdano tra le pagine di siti istituzionali necessariamente articolati ma dove spesso la risposta che si cerca è annidata chissà dove. Per questo servono visione e coraggio politico. E ovviamente la disponibilità ad investire.
Un messaggio diretto per imprenditori e liberi professionisti mantovani?
Tre parole: formate, iniziate, sperimentate. Tra cinque anni non esisteranno aziende che usano l’AI e aziende che non la usano. Esisteranno solo aziende che hanno imparato a integrarla e aziende che non esistono più. La scelta è vostra, il momento è ora.
Ultima domanda: l’AI ci renderà più umani o meno umani?
Certamente più umani, infatti paradossalmente, nell’era della rivoluzione digitale grazie all’AI tutto quello di cui un giorno potremmo avere bisogno per guidare un’impresa è una comoda poltrona sulla quale sedersi e utilizzare il nostro cervello. Quando le macchine assumono i compiti meccanici, noi siamo costretti a concentrarci su ciò che ci rende unici: creatività, empatia, intuizione, capacità di costruire significato. L’AI è uno specchio che ci mostra, per contrasto, cosa significa essere umani. Non è una minaccia alla nostra umanità, è un invito a riscoprirla e valorizzarla. Ma solo se la usiamo con intelligenza – quella vera, la nostra.













