(Adnkronos) – La sopravvivenza globale di pazienti con carcinoma avanzato delle vie biliari migliora con una combinazione immunoterapica – durvalumab di AstraZeneca più chemioterapia standard di cura – con un beneficio clinicamente significativo e duraturo di sopravvivenza globale. Sono i risultati aggiornati dello studio di fase 3 Topaz1, il primo che evidenzia questo miglioramento, presentati oggi al Congresso della Società europea di oncologia medica (European Society for Medical Oncology, Esmo) a Parigi. Lo annuncia in una nota l’azienda farmaceutica.
I dati aggiornati di durvalumab in combinazione con chemioterapia (gemcitabina più cisplatino) hanno mostrato una maggiore efficacia clinica al follow-up esteso di 6,5 mesi, mostrando una riduzione del 24% del rischio di morte rispetto alla sola chemioterapia. La sopravvivenza globale mediana aggiornata era infatti di 12,9 mesi, rispetto a 11,3 con la sola chemioterapia. Si stima che il numero di pazienti vivi a 2 anni sia più che raddoppiato rispetto alla sola chemioterapia (23,6% rispetto a 11,5%). I risultati sono stati osservati in tutti i sottogruppi predefiniti, indipendentemente dalla sede del tumore e dall’espressione della proteina di superfice tumorale PD-L1. Inoltre, il beneficio di sopravvivenza globale è stato osservato sia nei pazienti con malattia stabile che nei pazienti in cui il tumore si è ridotto o è scomparso (responders).
Il profilo di sicurezza di durvalumab più chemioterapia ha continuato a essere ben tollerato – si legge – senza nuovi segnali di sicurezza osservati al follow-up esteso. Gli eventi avversi di grado 3 o 4 legati al trattamento sono stati riscontrati nel 60,9% dei pazienti trattati con durvalumab e chemioterapia e nel 63,5% di quelli trattati con la sola chemioterapia. Durvalumab più chemioterapia non ha aumentato il tasso di interruzione per AEs rispetto alla sola chemioterapia (8,9% per durvalumab rispetto a 11,4% per la chemioterapia).
“Il tumore delle vie biliari è una patologia in costante crescita. Ogni anno in Italia si registrano circa 5.400 nuovi casi – afferma Lorenzo Antonuzzo, professore associato di Oncologia medica all’Università di Firenze e direttore Sodc Oncologia clinica Aou Careggi, Firenze – Non esistono test di screening o esami diagnostici in grado di identificare questa neoplasia in fase iniziale, quando è ancora possibile la rimozione chirurgica. La malattia è spesso caratterizzata da sintomi generici (ad esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, malessere), che possono essere facilmente sottovalutati o confusi con quelli di altre patologie. Per questo il 70% dei pazienti presenta alla diagnosi una malattia già in fase avanzata, con poche possibilità di trattamento. Da qui la forte necessità clinica di nuove terapie”.
Per lo specialista “è entusiasmante osservare il miglioramento della sopravvivenza globale ottenuto grazie alla combinazione di durvalumab più chemioterapia rispetto allo standard di cura dei pazienti con tumore delle vie biliari avanzato, al follow-up mediano di quasi 2 anni. Con progressi terapeutici limitati negli ultimi 10 anni, questi pazienti per molto tempo hanno affrontato una prognosi infausta. Per la prima volta, una combinazione a base di immunoterapia ha mostrato la capacità di modificare il trattamento di questa malattia e dovrebbe diventare il nuovo standard di cura”.
All’Esmo è stata presentata anche un’analisi esplorativa dello studio di fase 3 Himalaya per la valutazione dell’impatto delle cause della malattia sui risultati per i pazienti con carcinoma epatocellulare non resecabile. I dati suggeriscono una tendenza al miglioramento della sopravvivenza globale rispetto a sorafenib con il regime ‘Stride’ (singola dose priming di tremelimumab, un anticorpo anti-Ctla4, in aggiunta a durvalumab), indipendentemente dalla causa di malattia (virus dell’epatite B Hbv, virus dell’epatite C Hcv, origine non virale). Tendenze simili sono state osservate con durvalumab rispetto a sorafenib in tutti i sottogruppi.
“Questi dati a lungo termine – dichiara Susan Galbraith, executive vice president, Oncology R&D, AstraZeneca – sostengono il beneficio in termini di incremento di sopravvivenza e il profilo di sicurezza ben tollerato di durvalumab in aggiunta alla chemioterapia standard, nei pazienti con tumore delle vie biliari avanzato. Con questi risultati, i dati dell’analisi esploratoria dello studio Himalaya e la recente approvazione da parte della Fda” americana “sulla base dello studio Topaz1, portiamo avanti il nostro impegno con l’obiettivo di prolungare la sopravvivenza dei pazienti con tumori gastrointestinali che hanno forte necessità di nuove opzioni terapeutiche”.
Nel 2021 – ricorda AstraZeneca – i risultati positivi dello studio di fase 3 Himalaya hanno mostrato come il regime Stride abbia prodotto un miglioramento clinicamente e statisticamente significativo di sopravvivenza globale rispetto a sorafenib come trattamento di prima linea dei pazienti con carcinoma epatocellulare non resecabile, non trattati precedentemente con terapie sistemiche e non eleggibili per il trattamento localizzato. Quando i sottogruppi sono stati bilanciati secondo i fattori prognostici, rispetto a sorafenib, i pazienti con Hbv trattati con il regime Stride hanno mostrato una riduzione del 36% del rischio di morte e la durata media della risposta di 25,69 mesi (contro i 17di sorafenib). Nei pazienti con Hcv la riduzione del rischio di morte è stata dell’11% e la durata media della risposta era di 13,5 (15,7 mesi con sorafenib). Nei pazienti con eziologia non virale, la riduzione del rischio di morte è stata del 23%. La durata media della risposta era di 13,21 (6,01 mesi con sorafenib).
Himalaya è l’unico studio di fase 3 che dimostra un beneficio di sopravvivenza con l’immunoterapia nei pazienti con epatocarcinoma non resecabile non virale (malattia associata a cause non virali tra cui malattia epatica, obesità e diabete), evidenzia la nota. Sulla base di questi risultati, il regime Stride è in fase di valutazione da parte delle autorità regolatorie per l’impiego in questa forma tumorale di cui, negli ultimi vent’anni, è aumentata significativamente la prevalenza.