(Adnkronos) – “I ritardi nell’assistenza registrati nelle varie ondate pandemiche rendono concreto il rischio di un’impennata di pazienti colpiti da malattie del cuore e di una regressione della mortalità cardiovascolare ai livelli di 20 anni fa”. Lo sostiene Ciro Indolfi, vicepresidente Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi (Foce) e presidente Società italiana cardiologia (Sic), basandosi anche su dati degli studi, in particolare la ricerca pubblicata su ‘Nature Medicine’ secondo la quale per i guariti da Covid il pericolo di scompenso cardiaco aumenta del 72%. La ricerca, realizzata su 150mila pazienti guariti dal Covid-19 confrontati con oltre 5 milioni di controlli sani, ha dimostrato che, dopo il contagio, il rischio di patologie cardiovascolari aumenta significativamente, anche in chi ha meno di 65 anni senza fattori di rischio come obesità o diabete. È stato dimostrato, inoltre, che i pazienti guariti dal virus pandemico hanno il 52% di probabilità in più di ictus
“Si sta delineando – continua Indolfi – un quadro preoccupante che rischia di annullare le importanti conquiste ottenute in oltre 20 anni. Le malattie del cuore interessano 7,5 milioni di persone in Italia. In 36 anni (1980-2016) la mortalità totale per le malattie cardiovascolari si è più che dimezzata e il contributo delle nuove terapie è stato quello che più ha influito su questa tendenza. Ma la pandemia sta annullando tutti questi progressi. Non è allarmismo ingiustificato, come qualcuno ha addirittura affermato. Le nostre preoccupazioni si basano su dati certi”
Il ridimensionamento dell’assistenza è stato evidenziato da una recente indagine condotta dalla Società italiana di cardiologia (Sic) in 45 ospedali distribuiti sul territorio nazionale in due diverse fasi, a novembre/dicembre 2021 e a gennaio 2022: il 68% dei centri ha ridotto i ricoveri elettivi (programmati) dei pazienti cardiopatici, il 50% ha diminuito l’offerta degli esami diagnostici e il 45% ha tagliato le visite ambulatoriali. Il 22% ha dovuto addirittura ridurre i posti letto in terapia intensiva cardiologica.
“Durante la prima ondata della pandemia, nella primavera del 2020, i ricoveri ospedalieri di emergenza per infarti e ictus si sono dimezzati, molte persone sono morte a casa o sono sopravvissute con danni gravi al cuore o al cervello, perché gli eventi cardiovascolari gravi sono tempo-dipendenti”, afferma Indolfi.
“Questa nuova indagine avvalora i nostri timori di una ripresa della mortalità e di prognosi peggiori per infarti, ictus e scompensi cardiaci. Sono diminuite le angioplastiche coronariche, le procedure per l’impianto di pacemaker e defibrillatori, le ablazioni. Non solo. Sono stati ridotti gli elettrocardiogrammi, le ecocardiografie e i test da sforzo. Tutto questo è allarmante: i pazienti cardiopatici non hanno trovato più un’assistenza adeguata alla prevenzione e al trattamento delle loro patologie. E si stima che una persona contagiata dal Covid-19 su cinque vada incontro a conseguenze cardiovascolari”.
Possibili soluzioni concrete sono delineate in un editoriale pubblicato su ‘Circulation’, cofirmato da Indolfi. “Esiste una disparità, che va risolta, tra gli standard di assistenza forniti nelle diverse Regioni, soprattutto per quanto riguarda diagnosi o interventi altamente complessi nel Sud. Inoltre, i finanziamenti del Recovery Fund della Commissione Europea possono consentire il rinnovo delle infrastrutture dei grandi ospedali, con particolare riguardo alla distribuzione delle tecnologie sul territorio. E bisogna investire nella ricerca. Nonostante la qualità della ricerca cardiologica italiana sia elevata, le risorse sono insufficienti. In 14 anni, i fondi sono variati dall’1% all’1,4% del prodotto interno lordo, mentre la media europea è del 2%”, conclude.