(Adnkronos) – L’ipoparatiroidismo è una patologia endocrina caratterizzata da deficit totale o parziale di secrezione di paratormone (Pth) da parte delle ghiandole paratiroidi, che determina una riduzione dei livelli di calcio e un aumento dei livelli di fosfato nel sangue. La maggior parte dei pazienti sviluppa ipoparatiroidismo in seguito a danni o alla rimozione accidentale delle ghiandole paratiroidi durante un intervento chirurgico alla tiroide (circa il 75% dei casi). Altre cause non chirurgiche includono disordini autoimmuni, disturbi genetici e forme idiopatiche. Esperti del settore, nel corso di un media tutorial promosso da Ascendis Pharma oggi a Milano, hanno approfondito diversi aspetti della patologia, dall’epidemiologia al quadro clinico, fino alle complicanze e alle più recenti prospettive terapeutiche.
Si tratta di una malattia rara, con una prevalenza stimata tra 6,4-37 casi ogni 100mila persone e un’incidenza compresa tra 0,8-2,3 nuovi casi ogni 100mila persone all’anno. In Italia la prevalenza stimata è di circa 10.589 pazienti. Dal punto di vista clinico, l’ipoparatiroidismo si manifesta con sintomi acuti prevalentemente neuromuscolari come crampi, parestesie, spasmi muscolari e, nei casi più gravi, crisi tetaniche. Inoltre i pazienti possono avere disturbi cognitivi ed emotivi, tra cui ansia, depressione e il cosiddetto ‘brain fog’ (annebbiamento mentale). “Nella patologia paratiroidea – spiega Maria Luisa Brandi, professoressa, medico chirurgo specialista in endocrinologia e malattie del metabolismo, direttore della Donatello Bone Clinic e presidente della Fondazione Firmo – il paziente presenta in fase acuta sintomi neuromuscolari che vanno dai crampi alla crisi tetanica perché, se il calcio è basso, il nostro muscolo si contrae e non è in grado di rilassarsi. La malattia, inoltre, può indurre nel paziente notevole confusione mentale e depressione. Spesso, infatti, la sintomatologia del paziente viene confusa con una malattia neuropsichiatrica. Se non curata adeguatamente, può provocare anche alterazioni del ritmo cardiaco che portano frequentemente il paziente in pronto soccorso in condizioni critiche e, in alcuni casi, letali”.
Le complicanze a lungo termine – illustra una nota – includono calcificazioni ectopiche nei tessuti molli, l’insufficienza renale unitamente all’aumentato rischio di nefrolitiasi e nefrocalcinosi, nonché alterazioni cardiovascolari con un aumentato rischio di aritmie e disturbi della conduzione elettrica cardiaca. Inoltre, si riscontra una maggiore incidenza di alterazioni oculari, come la cataratta, e un aumento del rischio di infezioni.
“L’ipoparatiroidismo – sottolinea Andrea Palermo, medico endocrinologo presso l’Uoc Patologie osteo-metaboliche e della tiroide, Fondazione Policlinico universitario Campus Bio-Medico di Roma – è una malattia cronica che, oltre a causare insufficienza renale, comporta una condizione a basso turnover scheletrico. L’osso risulta essere infatti ipermaturo e con una scarsa capacità di ricambio che potrebbe giustificare il potenziale aumento del rischio di frattura. Questo sembra essere la base fisiopatologica della potenziale fragilità ossea, possibile segno della patologia. Queste complicanze possono impattare significativamente la vita del paziente e, per questo motivo, è fondamentale una gestione a lungo termine mirata a prevenirle e migliorare la qualità della vita”.
Negli anni la gestione dell’ipoparatiroidismo si è basata principalmente sul controllo dell’ipocalcemia attraverso supplementi di calcio e vitamina D attiva, senza però offrire una reale terapia sostitutiva del Pth. “Nella comune pratica clinica – osserva Valentina Camozzi, specialista in endocrinologia, dirigente medico, professore a contratto Uoc Endocrinologia, Dipartimento di Medicina, azienda ospedale-università di Padova – non è mai stato disponibile un trattamento ottimale per l’ipoparatiroidismo poiché le cure si limitano a contrastare il sintomo principale, ovvero l’ipocalcemia, attraverso l’uso di vitamina D attiva e supplementi di calcio, spesso mal tollerati e non sempre sufficienti a garantire una stabilità della calcemia. Questo comporta per i pazienti una gestione quotidiana complessa, con il rischio costante di crisi ipocalcemiche, ipercalciuria e danni renali. Talora è possibile l’utilizzo ‘off label’ di un prodotto, per i casi più severi, che riesce a gestire, anche se solo in parte, le criticità dei pazienti. Di recente è stata introdotta una terapia innovativa, nominata palopegteriparatide, che rappresenta una svolta: grazie al suo rilascio prolungato, infatti, consente di mantenere i livelli di calcio stabili nell’arco delle 24 ore, riducendo la necessità di supplementi di calcio e migliorando sensibilmente la qualità di vita, contenendo anche i rischi di sviluppare danni ad altri organi”.