“I monoclonali funzionano, ma se noi riusciamo a trattare i pazienti più a rischio con questi anticorpi nei primi 5 giorni dall’insorgere dei primi sintomi il loro effetto è ancora maggiore. E in questo momento particolare, con la variante Delta ancora dominante in Italia, occorre puntare ancora di più e con forza sui monoclonali. Tra un po’ avremo a disposizione anche le terapie orali. Probabilmente potranno essere somministrare insieme ai monoclonali, non lo sappiamo ancora, ma sicuramente questo è il momento in cui massimizzare l’uso di tali anticorpi, che magari saranno utilizzati insieme ad altre terapie. Quindi, uno sforzo su questo deve essere fatto”. Lo afferma all’Adnkronos Salute Carlo Tascini, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine.
Secondo l’infettivologo, è necessario individuare “precocemente i pazienti che hanno l’infezione da Covid-19″, in particolare coloro che sono a rischio di “sviluppare la forma grave della malattia – spiega Tascini – ovvero persone immunodepresse, con diabete, obesità, insufficienza renale, cardiopatie o ictus. Vanno intercettati e trattati per tempo, possibilmente a domicilio per non intasare gli ospedali perché le terapie intensive piene hanno causato, in passato più di adesso, la riduzione dei servizi. Noi individuiamo i pazienti a rischio grazie ai dati sui positivi che riceviamo ogni giorno dal Dipartimento, e li chiamiamo in modo proattivo. Oppure ci vengono segnalati dai medici di medicina generale o delle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca). La somministrazione avviene in ospedale dove il paziente è tenuto in osservazione un’ora dopo il trattamento per scongiurare eventi avversi, quindi rimandato a casa”.
L’individuazione precoce dei soggetti a rischio “in passato non è stata una delle priorità – ammette Tascini – a causa della difficoltà nell’eseguire i test diagnostici. Ovviamente, è necessaria una elevata sensibilità e specificità dei test che però devono essere anche rapidi. Noi sappiamo che il test antigenico e il test molecolare hanno dei punti deboli. In genere il test molecolare è di esecuzione più lunga, per questo non permette l’individuazione precoce del paziente che andrebbe trattato immediatamente con gli anticorpi monoclonali. Nella Regione Friuli-Venezia Giulia, invece, grazie a dei percorsi virtuosi i test vengono fatti tutti in giornata, in poche ore si hanno le risposte anche di quelli molecolari”.
Nell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine, da aprile ad oggi sono stati trattati con gli anticorpi monoclonali “circa 350 pazienti – ricorda Tascini – Abbiamo visto che se si inizia la somministrazione dei monoclonali entro i primi 5 giorni dai sintomi solo un 2% di pazienti necessita del ricovero. Invece, se si interviene dopo 5-10 giorni, la percentuale dei ricoveri sale all’8%. E proprio perché ci hanno aiutato a ridurre il numero delle ospedalizzazioni, a maggior ragione adesso occorre puntare sui monoclonali tempestivamente”.
L’Aifa all’inizio aveva “previsto di poter somministrare i monoclonali entro i primi 10 giorni dall’inizio dei sintomi – aggiunge l’esperto – Adesso la nuova indicazione parla di 7 giorni proprio perché si è visto che il monoclonale è attivo nella finestra virale della malattia, ovvero nella prima settimana. Dopo il paziente progredisce, in genere a causa di una risposta infiammatoria. A quel punto è inutile dargli un anticorpo monoclonale che potrebbe anche peggiorare la risposta infiammatoria”.
Quello adottato dall’ospedale di Udine è “un modello di gestione ideale del paziente Covid nelle fasi iniziali della malattia” ammette Tascini che però “necessita di personale medico disponibile a contattare i pazienti, a proporre la cura, a verificare che ci siano le condizioni e i fattori di rischio per la progressione della malattia. E’ un’organizzazione che richiede molto impegno da parte del personale sanitario ormai provato dagli ultimi 18-20 mesi di pandemia. Una cosa è certa: i monoclonali si conoscevano poco, adesso intorno a questi trattamenti sta aumentando la consapevolezza da parte di cittadini, ma anche tra i colleghi ormai voler individuare presto i pazienti a rischio di sviluppare la malattia in forma grave è diventata la prassi”.