Mennini (Ceis), ‘su equivalenti serve accordo quadro e Hta’

(Adnkronos) – “L’accordo quadro, accompagnato dalle valutazioni basate su Hta (Health technology assessment), risulta essere il metodo migliore al fine di garantire un accesso uniforme alle migliori terapie per i pazienti in un’ottica di equità verticale, sostenibilità, appropriatezza, esigenza clinica e tutela della concorrenza. E’ necessario però che venga utilizzato in maniera più uniforme nelle Regioni italiane. In un accordo quadro dove vengono mantenuti sia l’originator che il biosimilare, seppure l’originator mantenga una fetta minoritaria di mercato, si consente al clinico di avere a disposizione l’originator qualora il caso singolo lo richieda”. Così Francesco Saverio Mennini, Direttore Centro EeHta del Ceis, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, presidente SiHta intervenendo oggi nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’Expert opinion ‘Equivalenza terapeutica: Review normativa/legale, approcci strutturali & nuovi modelli procedurali alternativi’, organizzata da Mapcom Consulting, con il contributo non condizionato di Gilead Sciences e Sanofi Italia. 

“Le decisioni – osserva Mennini – dovranno quindi essere prese sulla base di una valutazione basata sull’Hta comprensiva di valutazioni economiche (costo efficacia, minimizzazione dei costi etc…) tendenti a sottolineare il valore di una tecnologia”. Inoltre, grazie all’Hta “il decisore può operare una valutazione più completa ed esaustiva – continua -: la metodica, infatti, consente di ottenere una dimostrazione migliore del valore del farmaco e della sua funzionalità rispetto a uno specifico paziente”. A tale proposito, “uno studio recente del Ceis di Tor Vergata – riferisce – ha evidenziato come, alla luce dell’attuale quadro regolatorio e con riferimento ai biosimilari, la possibilità di ricorrere all’accordo quadro garantisce una riduzione statisticamente significativa del differenziale di prezzo tra originator e biosimilare, con un potenziale effetto di contenimento della spesa, tutelando anche la concorrenza e le esigenze cliniche”. 

Dal punto di vista scientifico, “si possono individuare tre tipologie di equivalenza: farmaceutica, terapeutica e nella pratica clinica” afferma, nel suo intervento, Paola Minghetti, professore ordinario nel gruppo disciplinare Farmaceutico Tecnologico Applicativo, dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Milano. “In particolare – precisa – l’equivalenza terapeutica può essere stabilita sia per medicinali contenenti lo stesso principio attivo (generici e biosimilari) sia per prodotti contenenti principi attivi diversi ma con la stessa indicazione terapeutica. Nel caso in cui il principio attivo è rappresentato da una sostanza biologica – continua Minghetti – l’equivalenza terapeutica è subordinata allo svolgimento dell’esercizio di comparabilità che consiste in studi comparativi condotti anche per gli aspetti preclinici e clinici”.  

“Il caso più complesso concerne la determinazione dell’equivalenza terapeutica tra principi attivi diversi ma aventi la stessa indicazione terapeutica e appartenenti alla medesima classe chimica (classificazione Atc oltre il quarto livello). Tali medicinali – sottolinea Minghetti – possono avere un’efficacia paragonabile, ma nell’iter pre-autorizzativo non sono stati condotti studi comparativi atti a dimostrarlo. L’Agenzia regolatoria deve allora trovare altre fonti di informazione per capire se questa equivalenza sussiste e reperire dati e informazioni che non sono presenti nei dossier” registrativi. 

La disciplina italiana in materia di equivalenza terapeutica – secondo gli esperti – ha una palese anomalia, soprattutto sulle modalità di bilanciamento dei principi di tutela della salute e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, in particolare nella forma del contenimento della spesa pubblica. “Oggi sarebbe auspicabile una revisione normativa anche perché di fatto non c’è una definizione di equivalenza terapeutica né un’indicazione esatta, in un atto avente forza di legge, dei criteri sulla base dei quali la si determina”, spiega Vincenzo Salvatore, focus team leader Healthcare and Life sciences, BonelliErede, professore Ordinario di Diritto dell’Unione Europea, Università Insubria, Varese. “Sono convinto che, al di là di un intervento normativo che fissi alcuni criteri oggettivamente apprezzabili che devono guidare l’esercizio di valutazione di equivalenza terapeutica – sostiene – se si vuole introdurre un meccanismo di contenimento di spesa non è forse attraverso una valutazione di equivalenza terapeutica, ma forse in applicazione di criteri più moderni che hanno portato per esempio l’Unione europea ad adottare il recente regolamento sull’Health technology assessment”. 

“I dieci anni trascorsi dall’emanazione del D.L. 95 del 2012 – aggiunge Salvatore – consentono di evidenziare una serie di profili di criticità, sia per quanto concerne la sostituibilità automatica tra farmaci equivalenti (si pensi alla complessità del rapporto tra biologici e biosimilari) sia per quanto attiene alla lettura, talora opinabile, che della nozione di equivalenza terapeutica è stata data dalla giurisprudenza amministrativa di legittimità, si pensi all’affermazione dell’equivalenza terapeutica dei farmaci che possiedono il medesimo codice Atc di quinto livello”. Le valutazioni “sembrano sempre più orientate al perseguimento di finalità di contenimento della spesa, rischiando di mettere in secondo piano le valutazioni di carattere scientifico – puntualizza il legale -. Tenere distinte le valutazioni scientifiche da quelle di carattere economico – come avviene per l’Agenzia europea del farmaco – rappresenta un elemento di garanzia e di obiettività che, forse, anche in Italia impone un ripensamento del sistema”. Infine, “i soggetti che devono fare valutazioni scientifiche e i soggetti che compiono valutazioni economiche – conclude Salvatore – devono essere tenuti separati. Possono interloquire e dialogare, ma mischiare le due competenze rischia di inquinarle entrambe”. 

(Adnkronos)