(Adnkronos) – Interrogatorio oggi per Alessia Pifferi, la donna accusata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti nella sua culla la figlia Diana di soli 18 mesi. In uno dei passaggi, la 37enne ha spiegato che accudiva la bimba “come una mamma accudisce un figlio: le davo da mangiare, la cambiavo, se stava male contattavo l’ospedale, la crescevo, le davo da mangiare e bere per sopravvivere”.
Nella sua testimonianza racconta la nascita della piccola, nel bagno dell’abitazione dell’allora compagno conosciuto su un sito di incontri. “Diana nasce all’improvviso il 29 gennaio 2021, non sapevo di essere incinta, è nata prematura. È stata in incubatrice per un mese e mezzo all’ospedale di Bergamo, non è stato facile essere ragazza madre, ma non ho avuto problemi ad accettarla” racconta con un tono monocorde.
“Anche a mia madre ho raccontato di essere incinta e che non sapevo chi fosse il padre, ancora oggi non so chi sia” dice la 37enne che ricostruisce i primi mesi vissuti con la figlia e il su e giù dalla provincia di Bergamo – dove vive l’ex compagno per il quale “la bambina era un intralcio, diceva che le voleva bene ma non era vero” – all’abitazione di via Carlo Parea a Milano dove Diana muore il 20 luglio del 2022.
Prorio sull’episodio che ha portato alla morte della bimba, Alessia spiega di aver pensato che “il latte nel biberon che le avevo lasciato bastasse”. Ma quello non era il primo abbandono. Altre si era verificato, sempre nei fine settimana, che lasciasse sola la figlia per trascorrere del tempo con il compagno. “L’ho lasciata sola pochissime volte, non ricordo quante. Ero preoccupata di lasciarla sola così le lasciavo due biberon di latte, due bottigliette d’acqua” racconta. “Avevo paura di molte cose, anche se riuscisse a bere l’acqua, ma la lasciavo da sola perché pensavo che il latte bastasse” afferma.
“Quando sono rientrata quel 20 luglio del 2022 ho trovato mia figlia nel lettino, sono andata subito da mia figlia, non ricordo se la porta era aperta o chiusa. L’ho accarezzata, ma non si muoveva: ho capito che c’era qualcosa che non andava, non era in piedi come le altre volte”, aggiunge poi, ricordando che la bambina “non era fredda la bambina”.
“Ho tentato di rianimarla, l’ho presa in braccia e le ho faccio il massaggio cardiaco, in bagno ho provato a bagnarle le manine, i piedini e la testa per vedere se si riprendeva” aggiunge la donna, senza emozionarsi nel ricordare quei momenti, nell’aula del Palazzo di giustizia di Milano.
La 37enne racconta la corsa verso una vicina di casa per chiedere aiuto e la bugia “le disse che avevo lasciato Diana a una babysitter perché ero sotto choc. Tremai, sudai, mi misi a piangere, chiama il 118”, poi la richiesta al compagno – con cui aveva trascorso i giorni in cui la piccola è rimasta sola – di raggiungerla ma “lui non venne. Piangevo, tremavo, ero sotto choc, capii che non c’era più nulla da fare quando vidi i medici” conclude.