“Quella scaramantica parola d’ordine che i pretendenti si scambiano l’un l’altro con soave ipocrisia – e cioè che al Quirinale non ci si candida ma piuttosto si viene candidati dagli altri – è un rito con cui la politica del presente rende omaggio a quella del passato. Un rito, appunto. Che si poteva celebrare quando i partiti avevano saldamente in mano le redini del gioco e i candidati ballavano al ritmo delle loro musiche. E anche allora, a dirla tutta, una certa disinvoltura politica degli aspiranti alla massima carica contribuiva a complicare le geometrie delle forze dell’epoca.
Ora di quel rito esistono solo le forme. E infatti chi ambisce a salire sul Colle evita con cura di affidarsi al leader del proprio partito e/o ai suoi capigruppo come si faceva finta di fare allora. E si muove semmai su di una scacchiera ben più ampia giocandovi una partita al cui esito concorrono una gran quantità di fattori. Fatto è che per ‘farsi candidare’ dagli altri occorre una vocazione a proporsi di cui forse non tutti dispongono. O almeno, non tutti allo stesso modo.
Il dubbio riguarda tanti. Ma forse riguarda soprattutto Mario Draghi. Che della ritrosia a farsi avanti, mettersi in mostra, chiedere posto sembra – ed è – maestro. Ma a cui ora quella ritrosia potrebbe costare cara. Infatti il presidente del Consiglio è, per così dire, il candidato naturale per il Colle. Almeno a partire dalla così netta rinuncia di Mattarella ad accettare anche solo l’idea di un secondo mandato. E’ ovvio che a questo punto per prestigio e qualità il premier diventa il candidato più ovvio, oltre ad essere quello più blasonato.
Peraltro egli è sufficientemente fuori dalla contesa politica per poter raccogliere i voti di quasi tutti senza che quasi nessuno dei partiti si possa sentire usurpato o minacciato o anche solo messo in ombra da disegni politici che egli ha l’accortezza di non voler trasferire mai sul piano elettorale. Tutti o quasi possono votare Draghi dal momento che nessuno sa per chi Draghi voterà. Né materialmente, né virtualmente.
Pertanto egli finisce così per essere ‘il’ candidato. E per quanto si dichiari offeso dal solo menzionare l’argomento e accostarvi discretamente la sua figura, è solo ovvio che la partita comincerà dal suo nome, e che se si andrà in cerca di un candidato trasversale, non troppo di parte, la sua figura resterà quella che più vi si avvicina -per quante contorsioni possano dedicarsi a compiere gli altri concorrenti.
E tuttavia neppure Draghi può aspettarsi un plebiscito sul suo nome se egli stesso non concorrerà a chiarire per tempo il seguito della vicenda. E cioè, se si voterà subito (difficile) o un anno dopo; chi gli subentrerà in quel di Palazzo Chigi; se la legge elettorale resterà o cambierà. Insomma, l’insieme delle clausole che regolano la vita di un sistema politico complicato come il nostro e che confidano di trovare presso il Colle una sorta di tacita validazione e garanzia.
Tutte cose che non si mettono in piazza, di solito, Né per iscritto. Ma che in compenso reclamano una sorta di informale convergenza tra le forze antagoniste che si contendono lo scettro della politica, chiamiamola così, sottostante.
Ora, chi conosce Draghi esclude che egli si faccia banditore di se stesso e ingaggi una sorta di trattativa con le forze parlamentari che eventualmente dovrebbero votare per lui. Ma chi conosce le regole politiche a sua volta esclude che il capo dello Stato possa essere votato solo per le sue preclari virtù civili, senza che gli venga chiesto di dedicare una umana attenzione alle esigenze che le botteghe politiche si riservano di chiedergli l’indomani. E’ ovvio che ci si dovrà parlare, a quel punto. Che i partiti chiederanno qualche certezza in più. E che il nuovo capo dello Stato, rispettando tutte le sue funzioni e senza scadere in alcun tipo di mercanteggiamento, qualche certezza in più dovrà pur concederla.
Nulla di disdicevole. Solo un’antica consuetudine, di quelle che vanno sempre rispettate e mai propalate ai quattro venti”.
(di Marco Follini)