(Adnkronos) – “Riuscite a immaginare quanto lentamente passi il tempo quando non c’è aria e stai provando a respirare? Ogni persona con coscienza e cuore, indipendentemente dalla sua origine o religione, dovrebbe chiedere il rilascio immediato degli ostaggi prima che sia troppo tardi”. Amit Soussana, è stata nelle mani di Hamas per 55 giorni. Durante la sua prigionia ha subito violenza sessuale, un’esperienza che ha avuto la forza di raccontare alla première a Gerusalemme del film ‘Screams Before Silence’, che documenta gli abusi sessuali di massa del 7 ottobre. Il suo appello a liberare gli ostaggi arriva in una fase delicatissima della trattativa con Hamas, mentre il governo israeliano è sottoposto a enormi pressioni, sia da parte delle famiglie che delle cancellerie occidentali che premono per cercare di strappare il via libera all’intesa.
Facile a dirsi a parole, meno con i fatti. L’ala della destra ‘dura e pura’ dell’esecutivo, rappresentata dai ministri Ben-Gvir e Smotrich, continua a minacciare di far cadere il governo se Netanyahu dovesse cedere sulle trattative, rinunciando al piano di attaccare Rafah e soprattutto di estirpare una volta per tutte Hamas dalla Striscia di Gaza, l’obiettivo dichiarato della guerra. “Il dilemma di Benjamin Netanyahu: salvare gli ostaggi o il suo governo”, è il titolo emblematico di un recente articolo del Financial Times che fotografa bene lo stato dell’arte.
Fermare i combattimenti per liberare gli ostaggi permetterebbe a Hamas di rivendicare la vittoria e molti dei suoi leader, incluso Yahya Sinwar, resterebbero in libertà. Rifiutare l’accordo su una nuova proposta, mediata da Qatar ed Egitto e già accettata da Hamas per spingersi ulteriormente dentro Rafah, rischierebbe di causare una rottura con gli Stati Uniti e lascerebbe incerto il destino degli ostaggi. Una questione in cui la carriera politica di Netanyahu e la sicurezza di Israele sono inestricabilmente intrecciate.
Ma le dichiarazioni di Soussana rilanciate dai media israeliani sono il segnale di un Paese ormai straziato da sette mesi di una guerra costata la vita a 35mila palestinesi e che vuole girare pagina. “In qualche modo sono riuscita a resistere per 55 lunghi giorni ed è impossibile per me capire come qualcuno possa essere lì da 215 giorni quando ogni secondo sembra una vita e ogni respiro potrebbe essere l’ultimo”, ha aggiunto la donna. E, intanto, continuano ad alternarsi spiragli che fanno immaginare una soluzione positiva e notizie tragiche di ostaggi morti in prigionia. Come Judy Feinstein, 70enne dichiarata morta dalle Brigate al-Qassam, l’ala militare di Hamas, a seguito delle ferite riportate – secondo il gruppo palestinese – in un bombardamento israeliano di un mese fa.
Per Hamas ogni ostaggio morto nelle sue mani significa minore leva negoziale al tavolo delle trattative. Ma anche una possibilità di propaganda. Se Israele non avesse distrutto tutti gli ospedali di Gaza, ha dichiarato un portavoce delle Brigate, Judy – che aveva bisogno di cure in terapia intensiva – ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. Parole che gettano sempre più nelle sconforto i familiari degli ostaggi. Ormai non si contano più le manifestazioni in tutto il Paese, nel centro di Tel Aviv come davanti alle residenze di premier e ministri. Anche stamane un gruppo ha bloccato l’Ayalon, la strada principale della capitale, per chiedere al governo di accettare un accordo con Hamas.
Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, la maggioranza degli israeliani ritiene che raggiungere un’intesa sugli ostaggi rappresenti la massima priorità nazionale del Paese, più importante del lancio di un’operazione militare su vasta scala a Rafah. Le trattative proseguono febbrili, con gli Stati Uniti impegnati in prima persona. Oggi è in Israele il capo della Cia, Bill Burns, che nei giorni scorsi ha fatto visita anche in Qatar ed Egitto.
La stampa israeliana, intanto, come in una grande catarsi, continua a raccontare le storie di chi, una volta liberato dalla prigionia di Hamas, è riuscito a costruirsi una nuova vita. E’ il caso della 18enne Noga Weiss, minacciata dal suo carceriere, che sarebbe diventata sua sposa e avrebbe cresciuto i suoi figli.
Orfana di padre, ucciso dai miliziani di Hamas lo scorso 7 ottobre durante l’assalto al Kibbutz Be’eri, Noga era stata rapita insieme alla madre Shiri e insieme a lei liberata a novembre dopo 50 giorni di prigionia nella Striscia di Gaza. Ora ha deciso di arruolarsi nell’esercito israeliano dove ricoprirà il ruolo di mashakit tash, ovvero sottufficiale responsabile delle condizioni di servizio, una sorta di assistente sociale per i soldati.
Agli antipodi per età con Noga c’è l’84enne Alma Abraham, anche lei rilasciata durante lo scambio dello scorso novembre. La sua è una storia di speranza. Oggi, dopo cinque mesi di ricovero, dove era arrivata in grave condizioni, è stata dimessa dall’ospedale di Soroka.