Tornano i ‘voucher’, i cosiddetti buoni lavoro, cancellati nel 2017 dal Governo Gentiloni dopo un dibattito politico a dir poco tempestoso e introdotti per la prima volta nel 2003 con la legge Biagi, ma operativi solo dal 2008 come forma di pagamento alternativa in caso di lavoro occasionale accessorio, o di prestazioni saltuarie. L’occasione per reintrodurre uno strumento che dal 2018, dal dl dignità in poi, ha conosciuto una profonda trasformazione, è la manovra 2023 presentata oggi dal premier Giorgia Meloni.
Sarà dunque possibile, dal 1 gennaio prossimo, ricorrere ai buoni lavoro per i settori dell’agricoltura, del comparto Horeca, e della cura della persona, in particolare per quel che riguarda i lavori domestici. Il nuovo ‘assegno’ dunque avrà un valore nominale di 10 euro lordi all’ora, 7,50 euro netti, e un tetto di reddito per i lavoratori, fino a 10mila euro l’anno. Obiettivo quello di avere “uno strumento utile per regolarizzare il lavoro stagionale e quello occasionale” da accompagnare a “controlli molto rigidi” per “evitare storture”.
Il governo Meloni dunque raddoppia il tetto di reddito ammissibile rispetto a quanto previsto attualmente dalle norme introdotte con il Dl dignità che aveva fissato a 5mila euro , per le ‘prestazioni occasionali’ rigidamente circoscritte, il reddito massimo per i lavoratori , indipendentemente dal numero dei committenti e imponendolo anche ai quei datori di lavoro che avessero attinto da questo canale per evitare derive nell’uso di uno strumento dedicato a regolarizzare il lavoro saltuario.
Il testo della manovra dirà comunque quanto dell’intervento previsto per il 2023 si discosta dalla normativa attuale. Ma la decisione di rimettere in pista i ‘voucher’ è comunque destinata a riaprire il dibattito su una misura che dal 2008 al 2017 aveva registrato utilizzi record: in 104 mesi infatti, ha calcolato lo stesso Inps in un dossier dedicato ai numeri del lavoro occasionale, furono venduti complessivamente 433 milioni di buoni lavoro.
Una valanga di buoni lavoro, esentasse e che non prevedevano a quel tempo nessun tetto di utilizzo a carico del datore di lavoro, duramente criticato da Cgil, Cisl e Uil per i quali gli ‘assegni’ mascheravano una forma di elusione ed erano in molti casi una forma di precariato estremo e povero.