Leucemia mieloide acuta, il viaggio dei pazienti dalla diagnosi alle terapie

(Adnkronos) – Una diagnosi che arriva presto, entro due settimane dal primo accesso del paziente al centro di cura, e provoca paura, sconforto, rabbia, preoccupazione. Un’assistenza sempre più integrata e multidisciplinare, che, insieme alle figure dell’ematologo e dell’infermiere, comprende ormai spesso anche lo psicologo e il nutrizionista. Una serie di bisogni ed esigenze legati alla qualità di vita che cercano nuove risposte, come il potenziamento dell’assistenza domiciliare, il supporto psicologico, la puntualità di visite e controlli e il trasporto in ospedale. Sono queste le principali tappe nel viaggio di diagnosi e cura dei pazienti con Leucemia mieloide acuta, raccontate attraverso l’indagine “Leucemia mieloide acuta. Un viaggio da fare insieme”, promossa dall’Ail, l’Associazione italiana contro leucemie linfomi e mieloma, e realizzata da Doxa Pharma con il supporto non condizionante di AbbVie.  

Pazienti, caregiver, ematologi e volontari Ail hanno risposto a un questionario online validato da un board scientifico composto da ematologi di rilievo nazionale, per mettere a fuoco il percorso del paziente e la sua qualità di vita, la gestione della patologia da parte dei clinici, i bisogni e le richieste di tutte le figure coinvolte. “Oggi lo scenario nazionale della presa in carico è di buona qualità”, sottolinea Sergio Amadori, professore onorario di Ematologia e consigliere nazionale Ail.  

“Il paziente, nel momento in cui comincia ad avere dei sintomi che fanno sospettare una malattia ematologica, viene inviato in un Centro di ematologia – spiega – che si preoccupa di affrontare il percorso diagnostico e terapeutico fino alla possibile guarigione o follow-up. Questo però è solo un aspetto della gestione di questi pazienti complessi, in cui il ruolo dei familiari, del caregiver, dei volontari e dei servizi territoriali diventa altrettanto importante. Naturalmente esistono alcune criticità. Non sempre, ad esempio, le strutture sono perfettamente organizzate per poter seguire l’intero percorso di cura del paziente. E questo è un punto fondamentale perché la diagnosi deve essere fatta in tempi il più possibile rapidi”.  

Ma come inizia il viaggio dei pazienti? Un paziente su 4 dichiara di non essersi rivolto immediatamente al medico per la difficoltà di cogliere la gravità della situazione, anche a causa di sintomi che sembrano inizialmente sopportabili. Quasi il 60% si rivolge in prima battuta al medico di famiglia prima di essere indirizzato dall’ematologo. In ogni caso, entro due settimane dalla comparsa dei sintomi, l’80% dei pazienti viene preso in carico. Nella grande maggioranza dei casi (88%) l’ematologo comunica personalmente al paziente la diagnosi.  

Centrale, fin dalle prime fasi del percorso di cura, il supporto ricevuto da Ail sia in ospedale che attraverso l’assistenza domiciliare: l’88% degli ematologi ritiene che l’associazione abbia un ruolo fondamentale nel supportare e affiancare i pazienti con Lma. 

“Ail è un’Associazione molto radicata sul territorio nazionale grazie alle sue 82 sezioni, sempre attive anche in piena pandemia, che assicurano il supporto ai pazienti e ai loro famigliari sia attraverso le attività di assistenza domiciliare, che assicurano la continuità terapeutica e assistenziale, che attraverso le Case alloggio dedicate ai pazienti che dopo le dimissioni dall’ospedale devono essere seguiti per lunghi periodi dal Centro ematologico – afferma Giuseppe Toro, presidente nazionale Ail – I risultati di questa indagine ci confortano nella scelta di collaborare con gli ematologi, con i medici di medicina generale e con quanti operano sul territorio. E proseguiremo con le nostre campagne di raccolta fondi per dare sostegno alla ricerca scientifica e garantire ai nostri pazienti terapie sempre più innovative ed efficaci che possano migliorare sempre di più la loro qualità di vita”. 

In Italia ogni anno ci sono circa 50 nuovi casi di Lma per milione di abitanti. “Sotto il nome di Lma si riconoscono molte malattie che negli anni abbiamo imparato a identificare grazie alla genetica e alla biologia molecolare – spiega Alessandro Rambaldi, professore di Ematologia, Dipartimento di oncologia ed ematologia, Università di Milano e Azienda socio-sanitaria territoriale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – per questa ragione i pazienti sono riferiti a Centri o a reti organizzative che garantiscano a ciascun paziente il più profondo e completo inquadramento biologico della loro malattia”.  

“Non ci si può prendere cura di pazienti ematologici – aggiunge – se non si hanno a disposizione i laboratori per caratterizzare queste malattie. Capire quale forma di Lma abbiamo di fronte è cruciale anche per la scelta del trattamento. A una prima valutazione dei dati clinici ed ematologici deve seguire una prima valutazione della funzione del suo midollo osseo. Questa è una diagnosi d’emergenza. Subito dopo, partono tutta una serie di indagini per la caratterizzazione immunologica e citogenetica e molecolare che possono prevedere l’evoluzione, quantificare le cellule leucemiche e scegliere la terapia più adatta”.  

Nonostante i notevoli progressi conseguiti negli ultimi anni, i trattamenti disponibili per la cura della Lma sono ancora limitati. Dal punto di vista degli ematologi il principale bisogno (78% delle risposte) è legato proprio alla disponibilità di farmaci innovativi.  

“Le terapie introdotte in questi ultimi anni sono farmaci che colpiscono specifici target cellulari – dice Alessandro Maria Vannucchi, professore ordinario di Ematologia, direttore Sodc Ematologia Azienda ospedaliera Careggi e direttore Scuola di specializzazione in Ematologia, Università di Firenze – questo differenzia tali molecole dagli schemi chemioterapeutici che sono stati utilizzati finora, che peraltro continuano a rappresentare lo scheletro sostanziale del trattamento della Lma”.  

“Alcuni di questi farmaci possono essere utilizzati in associazione alla terapia convenzionale – illustra Vannucchi – altri possono essere utilizzati in particolari gruppi di pazienti, per esempio nei cosiddetti “unfit” cioè nei soggetti che non hanno le caratteristiche per poter tollerare una chemioterapia convenzionale; altri ancora per pazienti che hanno perso la risposta al primo trattamento o per mantenere una risposta dopo il trapianto di cellule staminali. Questa serie di nuove molecole sta modificando il panorama terapeutico attuale della Lma, assicurando significativi miglioramenti in termini di sopravvivenza e/o di assenza di recidiva della malattia, ma nessuno di questi può da solo portare a guarigione la malattia”. 

Nella maggioranza dei casi (80%) il paziente con Lma è seguito da un team multidisciplinare: ematologo, infermiere, psicologo e nutrizionista sono le figure oggi più attive sul paziente con Lma. Circa il 70% di pazienti, caregiver e volontari giudicano il team multidisciplinare come un elemento estremamente importante, ma viene auspicato anche l’inserimento dell’infettivologo e del palliativista, per un’assistenza il più completa possibile.  

(Adnkronos)