“Blessed are the peacemakers, che siano benedetti gli operatori di pace”. Si conclude così il post con cui Donald Trump ha annunciato l’accordo tra Israele e Hamas. E il presidente americano attribuisce indubbiamente a se stesso quel ruolo di ‘peacemaker’ che dovrebbe, a detta sua e di suoi sostenitori in patria e all’estero, assicurargli il premio Nobel per la Pace 2025. Forse non a caso all’indomani del suo annuncio dell’accordo che potrebbe essere il più grande successo diplomatico del presidente che ribattezzato il Pentagono il dipartimento della Guerra e rivendica una lista in base alla quale avrebbe messo fine a sette conflitti, che ora diventano otto.
Dopo mesi di pressioni pubbliche e aggressive di Trump – “mi merito il premio Nobel per la pace ma non me lo daranno mai”, ha esordito a febbraio fino a rivendicare all’Onu “tutti dicono che lo devo avere”, per poi concludere nei giorni scorsi che “lo daranno a qualcuno che non ha fatto un dannato niente, e sarà un grande insulto per il nostro Paese” – in queste ultimi giorni e in particolare in queste ultime ore si stanno moltiplicando sollecitazioni ed appelli, tra i quali quello dei familiari degli ostaggi israeliani, a premiare il presidente americano.
Dall’Istituto norvegese del Nobel, che conferisce il riconoscimento della Pace, si fa sapere che “l’ultima riunione del comitato si è svolta lunedì”. Parlando con l’Afp, il portavoce Erik Aasheim, non si sbilancia, confermando la tradizionale riservatezza del comitato: “Gli ultimi mattoni sono stati posizionati lunedì, ma non diciamo mai quando il comitato per il Nobel prenderà una decisione”. Precisa però che non sono previste altre riunioni, prima dell’annuncio. Ed esclude che il comitato si asterrà dall’assegnare il premio, come hanno ipotizzato alcuni esperti di fronte al deterioramento della situazione geopolitica: “Ci sarà un vincitore”.
Asle Sveen, storico dei premi Nobel, si dice “sicuro al 100%” che il vincitore non sarà Trump: “Il comitato ha già preso la sua decisione” e l’accordo tra Israele e Hamas “non ha alcun impatto” sulla scelta del comitato, aggiunge, ricordando anche che il presidente americano ha “dato carta bianca”, e aiuti militari, a Benjamin Netanyahu per le sue operazioni militari a Gaza. Proprio il premier israeliano è stato tra i primi a nominare, lo scorso luglio, Trump perché “sta forgiando la pace mentre parliamo, in un Paese della regione dopo l’altro”, dopo che i raid Usa contro le centrali nucleari iraniane hanno messo fine alla “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran. Nomine sono arrivati da leader di Cambogia, Azerbaijan, Pakistan e da esponenti politici di Ucraina, Svezia, Norvegia e Usa.
Si tratta però in maggioranza di candidature – tranne quella inviata a dicembre dalla repubblicana Claudia Tenney per gli accordi di Abramo – arrivate fuori tempo massimo rispetto alla scadenza, lo scorso 31 gennaio, per la presentazione delle 338 nomination per il 2025. Nina Grager, direttrice dell’Istituto di ricerca per la Pace di Oslo, considera pensa “altamente improbabile che gli sviluppi a Gaza influenzeranno le decisioni del Comitato”, aggiungendo però che se “il piano di Trump porterà ad una pace duratura e sostenibile, quasi certamente il comitato dovrà prenderlo in considerazione il prossimo anno”.
Jorgen Watne Frydnes, il presidente del comitato, ridimensiona il pressing per Trump che sta subendo insieme agli altri quattro membri nominati dal Parlamento norvegese, scegliendo spesso tra ex parlamentari: “Ogni anno riceviamo migliaia di lettere, mail, richieste, gente che dice ‘dovete scegliere questo’, così una campagna di pressioni non è certo una novità”. Il comitato agisce in piena indipendenza dal governo, ma secondo alcuni media locali, il tycoon, nella sua ossessione per il premio che nel 2009 fu conferito a Barack Obama (“l’hanno dato ad Obama, non sapeva neanche per che cosa, se mi chiamassi Obama me lo avrebbero dato in 10 secondi”) si sarebbe rivolto anche a Jens Stoltenberg, l’ex capo della Nato ed ora ministro delle Finanze norvegese.
“Noi sappiamo che il mondo è in ascolto e discute su come ottenere la pace e noi dobbiamo essere forti e determinati nelle nostre scelte, è il nostro lavoro”, dichiara ancora alla Bbc Frydnes, che da presidente dell’associazione norvegese per la libertà d’espressione in passato ha condannato la repressione “persino in Paesi democratici” puntando il dito contro Trump. E Ylva Engstroim vice presidente dell’Accademia svedese delle Scienze, ha puntato il dito contro le politiche di Trump per depotenziare con tagli draconiani la ricerca scientifica e minare la libertà accademica, politiche che “possono avere effetti devastanti a breve e lungo termine, la libertà accademica è uno dei pilastri della democrazia”.
Ma la cosa che in tanti in Norvegia e nel mondo stanno ricordano è che Trump con la sua leadership divisiva, le sue tante “guerre”, da quella ai migranti a quella commerciale con mezzo mondo, compresi amici e alleati, passando da quella al multilateralismo, sia quanto mai lontano dai principi con cui da 125 anni si conferisce il premio a chi “ha lavorato al meglio per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli armamenti e per svolgere e promuovere congressi di pace”.
“Trump si è ritirato da istituzioni internazionali come l’Organizzazione mondiale per la Sanità e dagli accordi di Parigi, se pensiamo alla sua aspirazione di ottenere la Groenlandia dalla Danimarca, questo non parla in favore della cooperazione internazionale”, afferma Graeger che poi sottolinea come la sua repressione di proteste, giornalisti critici e accademici, in particolare quelli considerati pro Pal, “tutto punta ad una direzione non pacifica”.