(Adnkronos) – “Il 5 maggio 2021 riuscii a contattare Saqib il quale mi disse di essere preoccupato per Saman, che non riusciva più a contattare dalla sera del 30 aprile. Nella stessa conversazione il ragazzo mi disse di essere in possesso di una foto di Saman con delle lesioni sul volto e di un messaggio vocale dello zio di Saman (non è certo di quale zio si tratti, ndr.) in cui diceva ‘prima che scappi di nuovo ammazzatela'”. Lo ha detto A.O., l’assistente sociale sentita come testimone nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia, dove è in corso l’udienza del processo per l’omicidio di Saman Abbas, la 18enne pakistana scomparsa da Novellara la notte tra il 30 e il 31 aprile di due anni fa. Il fidanzato della ragazza, Saqib Ayub, avrebbe poi detto alla stessa assistente sociale di essere preoccupato in quanto Saman lo aveva avvisato che se non si fosse più fatta sentire era perché le avevano fatto qualcosa.
“A marzo siamo venuti a conoscenza di alcune minacce che il fidanzato avrebbe ricevuto nei mesi precedenti dal padre e Saman disse che il padre nel loro Paese era un uomo molto potente” ha detto l’assistente sociale che ha conosciuto Saman a fine dicembre 2020 quando era già ospite della comunità protetta. “Descriveva il padre come un pericolo, raccontò di violenze, di maltrattamenti subiti quando viveva con i genitori, della sua reazione quando era rientrata dal Belgio, del coltello, che le aveva lanciato e che aveva ferito il fratello che si era interposto. Disse inoltre che veniva spesso lasciata fuori casa dal padre, lei e la mamma, al freddo, al caldo”. Sentita nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia come testimone, ha ricordato la paura che Saman Abbas aveva del padre, la totale chiusura nei suoi confronti, estesa poi anche alla mamma che, in un primo momento aveva accettato di incontrare in modalità protetta.
IL MATRIMONIO – “Il 9 novembre 2020 io ero in smartworking e Saman mi contattò su WhatsApp per chiedermi aiuto. Iniziammo a parlare e venne fuori il discorso legato al matrimonio combinato in Pakistan. Aveva percepito che sarebbe partita di lì a poco. Organizzai quindi un colloquio per il giorno successivo in ufficio, mi chiese anche di non contattarla al telefono, ma solo in chat, perché non voleva farsi sentire dalla famiglia. Il giorno dopo venne infatti con la mamma, che feci poi uscire. Saman mi disse che i genitori l’avrebbero portata in Pakistan il 17 novembre per sposare un cugino molto più grande di lei, mi pare di 11 anni, ma che non lei voleva, mi disse ‘ti prego aiutami'”. È il racconto che F. B., un’altra assistente sociale entrata più volte in contatto con Saman Abbas, sentita come testimone nel processo per l’omicidio della 18enne pakistana.
“Le spiegai allora cosa volesse dire esser messa in protezione, e mi disse che accettava. Iniziai così coi colleghi a organizzare l’allontanamento che si verificò il 13 novembre. Saman venne portata a Bologna in una comunità educativa per minori. Quando andai a vedere come stesse in comunità, Saman sembrava un’altra persona, il giorno prima aveva i vestiti classici della loro cultura, in comunità capelli sciolti lunghi, maglietta nera, jeans: era vestita all’occidentale. Le avevamo chiesto se volesse praticare o seguire una particolare alimentazione, ma mi guardò come a dire ‘anche no'”. “Le sono stati tolti i telefoni per ragioni di sicurezza, ma lei voleva parlare con Saqib. Mi parlò della sua relazione con quel ragazzo il 10 novembre, all’indomani della richiesta di aiuto. Mi disse di averlo conosciuto sui social, che viveva a Frosinone, che per lei era una relazione molto significativa. Gli elementi di preoccupazione – ha aggiunto – erano talmente elevati, perché potesse essere rintracciata dalla famiglia, che avevamo vietato a Saman di utilizzare il telefono in qualsiasi modalità. Per questo facevo da tramite tra i due ragazzi, per cercare di tenerla tranquilla”.
GLI ALLONTANAMENTI VOLONTARI – “Ho conosciuto Saman a fine dicembre 2020, appena ho assunto l’incarico. C’erano le restrizioni Covid e gli incontri, numerosi, venivano fatti in modalità telematica. Saman andava bene a scuola, aveva volontà di andarci. In comunità aveva fatto amicizie, ma il suo percorso era altalenante, la comunità segnalava difficoltà relazionali, conflittualità tra le ragazze, in una occasione c’era stato anche uno screzio” racconta l’assistente sociale A.O.. “Con Saqib aveva contatti telefonici, c’erano richieste di uscire da parte di Saman, di vedere il ragazzo – ha detto -. Da parte della comunità c’era il tentativo di far capire a entrambi i ragazzi che c’era un problema di sicurezza di Saman, relativamente alla motivazione che aveva portato al collocamento. Entrambi manifestavano il desiderio di vedersi, per questo abbiamo chiamato Saqib per spiegare anche a lui le accortezze necessarie. Ci sono stati forse quattro, cinque allontanamenti volontari. Quando lei è diventata maggiorenne. Quando tornava, la comunità sporgeva denuncia. Stava via a volte un giorno, a volte tornava e riusciva la sera, stava con Saqib a Bologna”.
E ancora: “L’11 aprile siamo stati avvisati dalla comunità del nuovo allontanamento – racconta ancora l’assistente sociale – ho avvisato la mia responsabile, ho provato a contattare Saman al cellulare ma risultava spento, non riceveva i messaggi. E anche Saqib non mi rispondeva, salvo poi mandarmi un messaggio per dirmi che era al lavoro e non poteva rispondere. Il 13 aprile abbiamo chiamato quindi Saqib che ha detto di non avere novità su Saman. L’accordo era di avvisarci. Solo dopo siamo venuti a sapere che il 22 aprile la ragazza era rientrata a casa”.
LA TELEFONATA DEL PADRE – “Il padre di Saman mi chiamò il 19 aprile chiedendomi di poter vedere la figlia, che la mamma stava male, che piangeva sempre, che voleva tornare in Pakistan ma prima voleva vederla” ha detto nell’aula della Corte di Assise del Tribunale di Reggio Emilia l’assistente sociale A.O.. Il 30 aprile successivo la 18enne pakistana è scomparsa.
LA FOTO CON LE ECCHIMOSI – “Ho conosciuto Saqib il 12 febbraio 2021, quando è stato chiamato in caserma per essere sentito a sit su delega dei carabinieri di Novellara, in qualità di fidanzato di Saman. Viveva, in qualità di rifugiato, ad Alvito (in provincia di Frosinone, ndr.) ospite di una cooperativa insieme ad altri due suoi connazionali” ha raccontato V. P. il luogotenente dei carabinieri di Frosinone che più volte ebbe modo di parlare con il fidanzato di Saman Saqib Ayub. “Ho ascoltato le sue parole, si è avvalso di un mediatore della sua comunità perché non parla bene italiano. Non era molto preoccupato, era preparato perché ci aveva detto di esser stato già chiamato dagli assistenti sociali di Novellara – ha spiegato il luogotenente da poco in congedo -. Abbiamo poi ricevuto una segnalazione da Bologna ad aprile per sentire nuovamente Saqib, in quanto non si avevano più notizie di Saman. Non lo abbiamo trovato, ci hanno detto che mancava da un mese ma il 5 maggio si è presentato spontaneamente per raccontarci che non aveva più notizie di Saman. In quell’occasione – ha raccontato – sono state acquisite delle comunicazioni su Instagram tra lui e Saman (una foto della ragazza con delle ecchimosi sul viso e una con un uomo che ci ha detto essere il padre) e abbiamo verificato come l’ultima chiamata tra i due fosse avvenuta il 30 aprile di quell’anno, alle 23.05. Lui ci è apparso molto più provato, aveva crisi di pianto, era impaurito, si vedeva che stava soffrendo. Quasi tutti i giorni veniva in caserma per chiedere novità, se sapevo qualcosa”.
Nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia il luogotenente dei carabinieri di Frosinone, da poco in congedo, ha raccontato che il fidanzato di Saman, conosciuto dalla 18enne sui social, era “spaventato, in una condizione di fragilità per le continue minacce ricevute al telefono dal padre della ragazza”. Tre mesi dopo averlo visto per la prima volta, “il 12 maggio – ricorda il carabiniere – ha presentato denuncia nei confronti del padre di Saman per le minacce ricevute da lui tramite telefono. Sono state acquisite in quell’occasione foto, video e screenshot. Lui aveva già presentato un’altra denuncia al commissariato di Sora. E intanto continuava a venire da noi, quando mi vedeva chiedeva se ci fossero notizie fino a quando, il 7 giugno, è stato risentito dai carabinieri del reparto operativo di Reggio Emilia e Guastalla: è lì che ha detto di avere il telefono di Saman. Non era stato del tutto sincero, continuava a dire cose spezzettate, incalzato affinché dicesse la verità aveva crisi di pianto, si accasciava sulla sedia. Era reticente, cercava sempre di sviare”. “L’ho poi risentito io il 10 giugno, perché avevamo saputo della fuoriuscita di notizie sui media, qualcuno era riuscito a procurarsi il suo numero e, spacciandosi per carabiniere – ha detto ancora il testimone – era riuscito a farsi raccontare l’intera storia, contribuendo così a far divulgare le notizie. Da allora lo abbiamo trovato dimagrito, non mangiava, stava sempre a letto, in una situazione psicologica di fragilità. Qualche giorno dopo, il 14, l’amico interprete mi ha chiamato, dicendo di essere preoccupato perché Saqib non gli rispondeva e temeva per lui. Siamo andati a casa, nella cooperativa, e lo abbiamo trovato che stava male, abbiamo chiamato il 118 che lo ha poi portato a Cassino, dove è rimasto ricoverato per una decina di giorni. Il 17 giugno mi ha fatto chiamare durante la degenza, mi ha chiesto un avvocato, continuava a dire che riceveva queste telefonate, gli abbiamo sequestrato i telefoni. Appena uscito dall’ospedale, accompagnato da un operatore, ha iniziato a prendere a testate un palo della segnaletica davanti alla caserma ed è poi svenuto. Lamentava il fatto che gli fossero stati sequestrati i telefoni, piangeva, diceva che non era giusto. Si è calmato solo quando gli è stato detto che lo avrebbero fatto chiamare due volte a settimana. Il 17 luglio ha ripresentato querela contro il padre di Saman – ha concluso – da lì non ho avuto più sue notizie fino a quando questa estate è venuto a trovarmi, stava meglio, aveva un lavoro ma continuava a temere le minacce dal padre di Saman”.
IL LEGALE DELLO ZIO – “I rari atti di indagini disvelano, e il mio cliente mi racconta, che il rapporto con Saman fosse ottimo e tutt’altro che preordinato a impedirle quel percorso di occidentalizzazione sul piano culturale che la ragazza aveva intrapreso” dice, in una pausa dell’udienza del processo per l’omicidio di Saman Abbass in Corte d’Assise a Reggio Emilia, l’avvocato Liborio Cataliotti, difensore dell’imputato oggi presente in aula Danish Hasnain, lo zio della 18enne pakistana. “Nel cellulare rintracciato e sequestrato del mio cliente ci sono interlocuzioni fatte da Saman tramite social avvenute nei due anni precedenti con il cellulare del mio cliente – aggiunge il legale all’Adnkronos- Danish quindi non ha mai osteggiato il percorso di occidentalizzazione di Saman. Quello con lo zio un rapporto ottimo e la stessa Saman, quando ha espresso preoccupazioni per ciò che sarebbe potuto accadere e in effetti è accaduto, non ha mai manifestato alcuna preoccupazione riguardo alla figura dello zio paterno Danish. Vero è che quando Saman negli anni precedenti aveva avuto bisogno di usare l’hotspot per internet è andata anche a casa dello zio”. (dall’inviata Silvia Mancinelli)