MANTOVA – Un’autobiografia di un cantore del mondo, un racconto in forma udibile. Angelo Branduardi presenta in questo modo, in un cortile di Palazzo di San Sebastiano gremito, il libro appena uscito sulla sua vita, sulla sua carriera. Mai avrebbe pensato di scriverla “nonostante molti ultimamente lo facciano dopo solo sei mesi di successo”.
Una vita strana, avventurosa, piena di incontri. In giovanissima età un trasferimento per lavoro del padre a Genova, una città di musica. Ma Branduardi, accolto con una standing ovation dal pubblico del Festivaletteratura, ricorda anche le strisce bianche di polvere antiscarafaggi e le trappole per topi. Era poi curiosamente interessato al lavoro di certe signore che stavano sui portoni. E spesso scappa dal controllo della madre per passare del tempo con loro, che lo chiamano “il piccolo principe delle prostitute” e gli fanno conoscere gli angoli caratteristici della città, le trattorie antiche, la panna montata con la cannella. Intanto inizia a suonare, a cinque anni. La scuola Montessori dove studiava aveva molta musica, suonata da una giovane ragazza al pianoforte. Si innamorò di entrambi, ma il pianoforte in casa non ci stava ed era costoso. Così il papà “melomane” lo portò da un maestro di violino. E qui la vista di quell’oggetto, il profumo di cera che emanava, il colore di quel violino del ‘600 gli fecero capire subito quale sarebbe stato il suo strumento. «Anche se allora ero giovane e sciocco ed ora non ho che lacrime».
Quindi si trasferì a Milano per imparare le lingue all’istituto del turismo e abbandonò il violino per qualche tempo, visto che gli sembrava uno strumento “da vecchio”. Non aveva dimestichezza con la propria età ed imparò a suonare la chitarra per superare questo problema. Ma un giorno la comunità ebraica gli chiese di suonare e quando vide che lo guardavano tutti come se fosse “Mick Jagger” (definizione che gli diede Gianni Boncompagni) capì ancora una volta che cosa dovesse fare davvero.
Suonare è un antidepressivo, è salutare suonare davanti ad un pubblico ed il violino è un’arma fantastica. Ed è il violino che suona te, un prolungamento del corpo, anche se la figlia violoncellista di Branduardi insiste che sia solo memoria muscolare. C’è moltissima letteratura nella musica del maestro, anche grazie all’incontro a scuola con Franco Fortini che insegnava benissimo e gli fece amare, tra gli altri, I Promessi Sposi e il Paradiso della Divina Commedia. “Non perdetelo il tempo ragazzi”, le parole di Domenica e lunedì nascono proprio da una poesia lasciata su un foglio da Franco Fortini.
E i ricordi continuano. Non avrebbe mai pensato neppure di cantare, suonava per la casa di riposo “Giuseppe Verdi”, per anziane signore soprano sempre truccate come se fossero Aida. Suonava per moltissimi altri cantanti, anche per orchestre di liscio. Girava per l’Europa, da Edimburgo alla Germania in autostop per una ragazza, in Cecoslovacchia durante la primavera di Praga dove vide tanta gente morire dopo l’invasione sovietica della città, arrestato per eccesso di velocità dopo un concerto ad Amsterdam. E c’era tanta musica allora, “She loves you” dei Beatles, il Blues di Robert Johnson e i Rolling Stones. La cultura popolare e l’istruzione musicale. Canzoni piene di significati, che il pubblico può rovesciare, trovandone di nuovi. Presenze anche di atmosfere leopardiane, forse. Negli anni ’70 ci sono stati una serie di creativi in tutti i campi che facevano cose bellissime. C’era voglia di cambiamento e si pensava di poter cambiare tutto. Guccini ha detto che oggi la musica non è bella e neanche brutta, è solo inutile. Ecco, il problema attuale forse è proprio questo. Oppure, come gli diceva Morricone, bisogna «studiare, studiare, studiare» e adesso non lo si fa più.