Partiti, ‘Il punto di vista di Follini’: “Pd e Lega in crisi non di voti ma di idee”

(Adnkronos) – “Arturo Benedetti Michelangeli, il grande pianista, diceva così. ‘Se non mi esercito per un giorno me ne accorgo io. Se non mi esercito per due giorni se ne accorge il mio maggiordomo. Se non mi esercito per tre giorni se ne accorge il pubblico’. 

Ora, è molto più di tre giorni che la politica non si esercita in quello che dovrebbe essere il suo compito principale: la rappresentanza. Anni e anni nei quali abbiamo progressivamente desertificato quel fitto paesaggio che una volta era composto da partiti, sindacati, associazioni in cui i cittadini potevano far sentire la loro voce, misurarsi con i propri simili, mettere a fuoco i problemi, costruire un pezzo – fosse pure un frammento – del loro futuro. Un vuoto che la rete e i social non riescono a riempire e che si gonfia semmai, giorno dopo giorno, di tutte le delusioni e le paure che la difficoltà del momento inevitabilmente ingigantisce. 

Si dirà che il rimpianto per l’età dei partiti suona vuoto e inutile, e forse è vero. Ma poiché i partiti continuano ad esistere, si vorrebbe che la loro esistenza fosse resa almeno più fruttuosa e meno triste di come sta accadendo in questi ultimi tempi. Se non altro per dare ai loro fragili leader una piattaforma più solida e robusta dalla quale rivolgersi al paese. 

E invece pare proprio che la curva discendente di questi ultimi anni prosegua e perfino si accentui. 

Basti prendere in considerazione le reazioni dei due partiti che sono usciti sconfitti, o almeno delusi, dal voto di due settimane fa, il Pd e la Lega. Due forze storiche, a modo loro, tutte e due. Una che si pone come erede e continuazione delle grandi culture politiche novecentesche. L’altra che si offre come il partito più longevo della seconda repubblica, l’ultimo caso di imitazione di un patito leninista -a dispetto di ideologie tutt’affatto diverse. 

Ebbene, largo del Nazareno (sede del Pd) appare in questi giorni come un alveare impazzito. E via Bellerio (sede della Lega) appare a sua volta come un tetragono monolito. Due modi apparentemente opposti di reagire a una difficoltà che finisce paradossalmente per accomunarli loro malgrado. 

Il partito democratico è tutto un fiorire di pronunciamenti, interviste, candidature in vista del congresso che verrà (quando verrà: anche la data fa questione). Una discussione non priva di passione, e neppure di autocritica. Che però non sembra avere un filo conduttore. Ognuno dice la sua in ordine sparso, ma senza che vi sia una cornice capace di dare un senso e una prospettiva a tutte queste agitazioni e interrogazioni. Si discute disordinatamente se occorre guardare più al centro o più a sinistra, se basta rinnovarsi o servono misure più forti, se addirittura occorre sciogliersi. Tutte cose che fanno parte di un serio travaglio politico e che non meritano di essere irrise né guardate con sufficienza. Ma che appunto avrebbero bisogno di un contesto all’interno del quale acquistare un senso. O se si preferisce, di un direttore d’orchestra che desse un briciolo di armonia a suoni che invece si perdono nell’aria quasi senza un costrutto. 

La Lega a sua volta esorcizza la quantità di voti persi (un numero impressionante, da quattro anni a questa parte) come se potesse invece sfilare festante sul carro dei vincitori. Il suo leader è in tutta evidenza il fattore di un imbarazzo diffuso e personale ora che si va componendo la lista dei ministri. E i suoi dirigenti, piuttosto che interrogarsi sulle cause della debacle, fanno mostra di condividere assieme a lui un percorso che ne va cambiando la natura e che sembra condurli verso un vicolo cieco. Non c’è una voce che segnali il rischio di un avvitamento fatale. E il monito del leader storico Bossi sul fatto che occorra ripartire dal nord, tornando alle origini, suona più come una mitologia in nome del passato che come un progetto in vista del futuro. 

L’alveare impazzito e il monolito tetragono, per l’appunto. 

Così i due partiti più partiti, quelli che sembrano meno distanti dal lessico e dalle ragioni delle forze politiche di un tempo, sembrano proprio quelli più in crisi. Non tanto perché abbiano perso voti, dato che prima o poi succede a tutti. Ma perché non riescono a trarre dalla sconfitta quel minimo (seppur triste) beneficio che è dato dallo sforzo di risalire la china facendosi venire qualche idea nuova. 

Forse è il segno che la crisi della Repubblica dei partiti è destinata a non finire. O almeno, non adesso. Nonostante il rimpianto di tanti”.  

(di Marco Follini) 

(Adnkronos)