Plasma iperimmune: pubblicati i risultati sulla rivista Haematologica. Registrato un decesso ogni 16 pazienti trattati

MANTOVA – Pubblicati su “Haematologica”, una delle più prestigiose riviste scientifiche del settore, i risultati dello studio condotto dalla Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia e dall’Asst di Mantova sull’utilizzo del plasma da donatori convalescenti come terapia per i pazienti critici affetti da Covid-19. Una pubblicazione frutto di uno studio iniziato il 17 marzo e concluso l’8 maggio che ha visto trattare 46 pazienti ricoverati nei due ospedali, ad esclusione di uno proveniente da fuori Regione. Le persone coinvolte avevano più di 18 anni, il tampone nasofaringeo positivo e un distress respiratorio, ovvero difficoltà di respirazione tali da necessitare supporto di ossigeno o intubazione. Ognuno era stato, inoltre, sottoposto ad una radiografia al torace positiva, che mostrava polmonite interstiziale bilaterale, e caratteristiche respiratorie tali da far preoccupare il clinico.

“Quando è stato scritto il protocollo – spiega Cesare Perotti, direttore del servizio immunoematologia Policlinico San Matteo Pavia – il 9 marzo il Ministero della Salute Italiano segnalava 8.514 persone positive, di cui il 59,2% ricoverati con sintomi, il 10,3% ricoverati in terapia intensiva, il 30,5% in isolamento domiciliare, il 9,9% di guariti. Al 10 marzo, al San Matteo, erano stati accettati in pronto soccorso 430 pazienti covid positivi e contavamo già 174 ricoveri, con 35 dimessi e 24 deceduti. Generalmente, la carica virale ha un picco nella prima settimana di infezione – prosegue – e il paziente sviluppa una risposta immunitaria primaria entro 10–14 giorni, seguita dalla clearance del virus”. Da lì, dunque l’osservazione dell’effetto del’’immunizzazione passiva, somministrando anticorpi specifici contenuti nel plasma dei soggetti guariti. “Lo abbiamo fatto – continua Peretti – sapendo che il plasma avrebbe potuto rivestire un ruolo terapeutico, senza gravi controindicazioni nei pazienti critici e mediante una procedura di raccolta, la plasmaferesi, rapida ed efficace. In questo modo si sarebbe messo immediatamente l’emocomponente a disposizione di chi ne avesse necessità”.

Un procedimento poi utilizzato, come evidenziato dallo stesso Peretti, con i dovuti accorgimenti, da tantissimi paesi extraeuropei e posto alla base dello studio nazionale. “Abbiamo ipotizzato che l‘induzione di sufficienti livelli di anticorpi neutralizzanti, trasferiti passivamente al paziente affetto – prosegue Fausto Baldanti, responsabile del Laboratorio di Virologia Molecolare del Policlinico San Matteo – avrebbero dovuto favorire la neutralizzazione del virus, prevenire l’ulteriore infezione delle cellule bersaglio, ridurre la carica virale e la severità della malattia”. Un metodo che guardava, dunque a tre aspetti principali: riduzione della mortalità a breve termine in terapia intensiva; miglioramento dei parametri respiratori e dei parametri legati alla infiammazione.

“Prendendo il siero di pazienti che hanno superato l’infezione, a due settimane dal primo caso, e aggiungendolo a colture cellulari – aggiunge Baldanti – abbiamo notato che lo sviluppo del virus veniva annientato, segno della presenza di anticorpi neutralizzanti. A quel punto bisognava stabilire quanti ce ne fossero. Da qui l’applicazione di un parametro, in linguaggio scientifico definito ‘Titolo’, che serve per capire quale diluizione di siero è ancora in grado di uccidere il virus in coltura. Il risultato ottenuto ha accertato che anche con un rapporto di 1:640, ossia diluendo 640 volte il plasma di un paziente, si riesce a uccidere il virus”.

Una tecnica, quella del plasma iperimmune, che ha mostrato come la mortalità dei pazienti in terapia intensiva fosse scesa dal 13/20% al 6% (da un decesso atteso ogni 6 pazienti, se ne è verificato uno ogni 16). Numeri positivi che vedevano migliorare anche i valori del distress respiratorio entro la prima settimana, mentre i tre parametri fissati per l’infezione diminuivano in maniera altrettanto importante.

“Mantova e Pavia – conclude poi Massimo Franchini, direttore del servizio immunostrasfusionale dell’Asstt di Mantova – hanno arruolato pazienti con forme gravi di covid-19, egualmente distribuiti tra le due strutture ospedaliere. Lo studio è il primo condotto nel mondo occidentale sull’utilizzo del plasma convalescente nel Covid-19 e ha aperto la strada agli studi randomizzati condotti successivamente in Europa e negli Usa. Il risultato più rilevante è quello di una riduzione della mortalità assoluta del 9 per cento nei pazienti trattati con l’emocomponente rispetto alla casistica nazionale. Questo importante risultato è stato ottenuto grazie all’efficacia del plasma nel migliorare il quadro respiratorio e polmonare dei pazienti e nel ridurre gli indici infiammatori e la carica virale”.