MANTOVA – Michelangelo Buonarroti è semplicemente il “divino” Michelangelo, l’archetipo degli artisti di tutti i tempi. Grande fu la sua fama, anche in vita: nonostante la sua attività si sia concentrata su Roma e Firenze, anche la Mantova dei Gonzaga dovette fare i conti con l’ineludibile influenza di quel gigante. Il 22 febbraio del 1527 Federico II scriveva di essere da “molt’anni (…) amatore dello excellentissimo messer Michele Angelo” e – in un significativo ribaltamento di ruoli – senza paura di mostrarsi supplice chiedeva di ottenere una sua opera. Non importava quale fosse, ne bastava una qualsiasi.
L’esposizione “Michelangelo: i bronzi della Passione” di Palazzo Ducale – che aprirà domani 18 marzo e rimarrà allestita sino al prossimo 15 giugno – vuole puntare l’attenzione su un episodio poco noto della vita del grande artista. La mostra è stata presentata stamani dal direttore del Ducale Stefano L’Occaso.
Si tratta del progetto di un “Calvario”, ovvero la rappresentazione di Cristo sul Golgota assieme ai due ladroni; il termine deriva dal nome latino della collina appena fuori dalle mura di Gerusalemme, ossia il luogo sul quale si svolse la crocifissione. Di questo progetto abbiamo testimonianza dell’esistenza di modelli di studio – in cera o terracotta – transitati a Mantova nel 1582, come attesta una scritta riportata su due disegni conservati uno a Budapest (Szépművészeti Múzeum) e l’altro già nella Rugby School Art Museum (e poi in asta a Londra, presso Christie’s).
Questi modelli, evidentemente oggetto di studio e attenzione nel tardo Cinquecento mantovano, sono alla base dei bronzi realizzati da un anonimo scultore lombardo e conservati presso le Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco a Milano.
Le tre sculture sono il fulcro della mostra di Palazzo Ducale e vengono esposte lungo il percorso di visita di Corte Vecchia in un allestimento inedito nella cappella dell’Appartamento Ducale e con un apparato di approfondimento dispiegato nella camera di Giove e Giunone. L’intento è raccontare al pubblico la vicenda di quei modelli perduti e del relativo progetto incompiuto a opera del maestro toscano. I tre magnifici bronzi milanesi, pur non essendo di mano di Michelangelo ma di un suo abile imitatore, costituiscono l’esito a noi più vicino della sua ricerca figurativa sul tema del Calvario (clicca sulle immagini sotto per ingrandirle).
Cristo crocifisso è al centro e ai suoi lati sono i due ladroni, alla nostra sinistra il buon ladrone e a destra il cattivo. I nomi di questi ultimi – rispettivamente Disma e Gesta – compaiono solo nel Vangelo apocrifo di Nicodemo. La loro vicenda, ripresa in numerosi testi dal Medioevo e per tutto il Rinascimento, si lega al tema della Salvezza e del libero arbitrio: Disma si pente, comprendendo la natura divina di Cristo, ed è raffigurato con lo sguardo rivolto al Salvatore; al contrario, Gesta rifiuta la salvezza offerta da Gesù e distoglie lo sguardo, volgendolo nella direzione opposta. Il gruppo fu eseguito negli ultimi decenni del Cinquecento in area lombarda e doveva probabilmente essere destinato alla devozione privata, in una cappella all’interno di un palazzo o di un edificio religioso.
Oltre al gruppo del Castello Sforzesco esposto in mostra e appartenuto all’inizio dell’Ottocento all’artista neoclassico Giuseppe Bossi, sono note altre due versioni in bronzo raffiguranti lo stesso tema. Il gruppo più celebre e fedele al pensiero di Michelangelo, si conserva al Metropolitan Museum of Art di New York; alla fine dell’Ottocento, era proprietà del celebre antiquario fiorentino Stefano Bardini. L’altro, già seicentesco, è nel Dommuseum di Hildesheim ed è completato dalle figure dei tre dolenti – la Madonna, la Maddalena e San Giovanni Evangelista. Le due versioni più importanti – Milano e New York – differiscono tra di loro per alcuni dettagli, soprattutto nella figura di Cristo, e mescolano studi diversi dello stesso Michelangelo.
“Questa mostra – afferma il direttore Stefano L’Occaso – affronta un singolo progetto michelangiolesco, legato a un Calvario, del quale ci sono tracce a Mantova nel 1582, quando l’artista era già morto, e i cui riflessi si colgono, in un labirintico gioco di specchi (tra copie e derivazioni, citazioni dissimulate e variazioni), in questa e numerose altre città. Certamente un argomento così profondo, come quello della Salvezza, non poteva non toccare la sensibilità e il cuore di un artista di sincera e profonda religiosità, quale fu Michelangelo. Con questo piccolo ma prezioso tassello espositivo confidiamo di illuminare uno dei molteplici aspetti della straordinaria vitalità artistica della città di Mantova nel Cinquecento”.