Iggy Pop e l’Ocm al Te in un live sbalorditivo ed incendiario che ha attraversato 50 anni di carriera musicale

MANTOVA – Cinquecento anni dopo, nei Giardini di Palazzo Te ha ripreso vita anche tutto lo spirito provocatorio ed eccentrico delle forme ideate da Giulio Romano per il “palazzo dei lucidi inganni “ del Duca Federico II. In una cornice simile Iggy Pop non poteva che dare il massimo. Ma a tre quarti di secolo compiuti, lo pensavano in tanti, riuscirà a stupire nel suo ruolo di giullare di corte psicopatico e lussurioso?

Sale sul palco sornione, guardato a vista dalla sua Free Band composta da musicisti eccezionali e circondato dagli elementi dell’Orchestra da Camera di Mantova. La chitarrista californiana Sarah Lipstate apre le danze con l’introduttiva “Rune”, quasi a voler permettere l’accesso degli spettatori ad una dimensione altra ed è subito “Five Foot One”: giacchetta aperta e una voce calda ed istrionica, Iggy interpreta la canzone come una dichiarazione di guerra per l’ora e quaranta a venire. Il brano del 1979 nasce con archi e fiati, e da subito sul palco si legano tra loro il rock lascivo e la musica orchestrale. Dopo pochi minuti di concerto non c’è più nessuno seduto ai posti assegnati, letteralmente travolti i posti “vip” e una folla che preme davanti al palco.

Le atmosfere cupe di “Loves Missing” e sognanti di “Sonali” tratte dall’ultimo album dal vivo aggiungono legna al grande fuoco rituale che si va preparando: Iggy al terzo brano è già a petto nudo e inizia a danzare sempre più frenetico, saluta ripetutamente il pubblico a pugno chiuso e corre da un lato all’altro del palco a salutare i fan accorsi a Mantova. Il fisico asciutto, la pelle di un rettile, duratura e resistente agli urti di una carriera di eccessi e successi, di ascese, cadute e nuovi inizi. Il ragazzo di Detroit che inventa il punk supersonico e allucinato, preso per mano da David Bowie a Berlino per la sua rinascita umana e artistica di fine Settanta: proprio da lì e dai viaggi sulla linea 1 della S-Bahn della città tedesca arriva una “The Passenger” che Iggy non esegue semplicemente, ma declama come un inno sgangherato e ruvido con i suoi quattro accordi che fa sognare e cantare il pubblico. Lui risponde con continui sorrisi e dimostrazioni di affetto per la folla che si accalca e salta sotto palco. “James Bond” e “Dirty Sanchez” scorrono eleganti con la classe innata della Free Band capitanata da Leron Thomas.

Parte il ritmo martellante di “Lust for Life” e per il pubblico è subito il 1977 da una parte e “Trainspotting” dall’altra: l’età media del pubblico è infatti tra i quaranta e i sessant’anni. I fan esplodono in un ballo collettivo e seguono le follie di Iggy che regge l’asta del microfono con la sua posa iconica e graffia in gola ogni parola prima di urlarla dal palco. Più o meno dalla stessa epoca arriva “The Endless Sea” che nel live mantovano diventa ancora più onirica, eterea e morrisoniana; la scena è tutta per la voce, quella voce, e per i sintetizzatori affilati di Leron Thomas. Sul funk stralunato di “Sister Midnight” Iggy fissa il pubblico, con la sua voce baritonale che non perde un colpo, canta uno dei pezzi in cui anche a distanza di decenni si sente ancora imprescindibile l’impronta compositiva di Bowie. “Free” è un invito dal palco ad essere liberi, una affermazione forte in tempi di addomesticamento delle coscienze e di disciplinamento dei corpi.

In cielo si vedono lampi, sul palco partono scariche elettriche: è la volta di “Gimme Danger” power-ballad di epoca Stooges. Iggy salta e corre perdendosi dentro liriche disperate e nichiliste, la precisione di band e orchestra fatica a contenere tutta la carica di questo brano. Per l’animale da palcoscenico americano e per il pubblico un attimo di fiato con la prima parte di “I’m sick of you” che deflagra lisergica con preziosi tocchi di contrabbasso ad esaltarne la potenza di fuoco.
Le notti balorde in giro per locali a Schoeneberg, il cabaret, la decadenza: tutto condensato nella spettacolare “Nightclubbing” eseguita in modo magistrale ed evocativo per un pubblico che danza e ondeggia. Gli anni solcano il volto del cantante ma, insieme alla voce, lo sguardo sincero e furbo racconta in modo autentico di balli robotici e di passi da fantasma nel buio della metropoli; anche quando dalle prime file raccoglie una (immancabile) bandiera sarda e se la mette al collo come una sciarpa.

Iggy Pop durante “Glow in the dark” è più sciamano che mai: i gesti sembrano quelli di un rituale e i fedeli chiamati a raccolta seguono l’incedere del brano fino all’esplosione finale e alla lunga coda rumorista che incendia la catasta ideale allestita pazientemente fin dall’inizio del live. Ancora Stooges e gli accordi sporchi di “I wanna be your dog” scatenano il delirio. Il cantante sembra tutt’altro che stanco e incita il pubblico che canta e, nelle prime file, poga in modo indiavolato.

Applausi, luci accese: Iggy Pop stringe la mano del Direttore d’Orchestra Enrico Gabrielli e ringrazia la “Mantua Chamber Fuckin’ Orchestra”. È finita? No.
Il cantante afferra il microfono e annuncia che “adesso però lo facciamo in stile Detroit” e così, tra lo stupore generale, tutti vengono presi alla sprovvista dal riff sferragliante di chitarra di T.V. Eye sparato oltre i limiti di velocità. La danza macabra continua sulle urla sguaiate di Iggy e sul ritmo incalzante della band . Così “Death Trip” con cui James Osterberg Jr. riafferma il primato di un rock viscerale su ogni tentazione patinata e accomodante. “Down in the street” così feroce e irriverente, aggiunge altra magia ad uno spettacolo inarrivabile. Chiude la partita un poker d’assi di cui l’ultimo è una “Search & Destroy” al fulmicotone, una scossa tellurica sul prato di Palazzo Te in cui l’Iguana ancora una volta beffa il tempo che passa e le mode musicali.

Emanuele Bellintani