“Libero di sognare”: Franco Baresi ha raccontato al Festivaletteratura le tappe di una carriera unica

MANTOVA –  Franco Baresi non ha certo bisogno di presentazioni, in un Paese altamente calciofilo come il nostro: i telecronisti “tifosi” l’hanno chiamato “la grande anima rossonera”, il capitano di mille vittorie e mille battaglie in maglia milanista, per due decenni pilastro della Nazionale azzurra. Tutte definizioni azzeccate: il grande difensore si è raccontato oggi pomeriggio al Festivaletteratura, dialogando con Federico Buffa, giornalista e scrittore che racconta, sugli schermi di Sky, le gesta dei grandi campioni dello sport. Prossimamente uscirà la sua biografia sportiva “Libero di sognare”, che ripercorrerà le tappe di una carriera lunghissima e irripetibile come quella del “6 per sempre” (nessuno ha più indossato quella maglia dopo il suo ritiro) milanista. Esordio in serie A a 17 anni, campione del mondo a Spagna ’82 con la nazionale di Bearzot (senza però mai giocare), sino alle medaglie di Italia ’90 (bronzo) e Usa ’94 (amaro argento dopo la sconfitta ai rigori con il Brasile). E proprio da quella vicenda, con il pianto a dirotto di Baresi, parte il racconto della sua esperienza di vita da calciatore. Lacrime liberatorie: “Da bambino non potevo piangere, dovevo sembrare forte – ha detto Baresi -, quella volta invece capii che per me si trattava dell’ultima occasione. Con questo libro ho voluto trasmettere le emozioni, per essere magari d’ispirazione ai giovani. Il titolo “Libero di sognare” non è casuale: oggi tanti ragazzi sono sotto pressione già a 12-13 anni, io invece sono cresciuto all’oratorio di Travagliato giocando a calcio, e ogni giorno tornavo a casa felice, libero di divertirmi”. Un’infanzia umile, in una famiglia come tante dei primi anni ’60, passata in un casale della bassa bresciana: “Quante volte ho giocato solo con la palla in quel cortile, scalzo per non rovinare le uniche scarpe che avevo”. Il talento innato di Baresi, unanimemente riconosciuto, era quello di sapere come muoversi prima degli altri. Il colpo di fulmine col Diavolo (con i dirigenti che decisero di prenderlo subito), dopo un’amichevole con i pari età del Milan disputata proprio in quello che sino ad allora era il “suo” teatro dei sogni: l’oratorio di Travagliato. Il futuro capitano rossonero e i compagni misero alle corde i più blasonati meneghini. Qualche anno dopo lo scenario sarebbe cambiato, con Baresi a battersi nel catino della Scala del calcio, quella di San Siro. Tanti i ricordi: “Esordii nel 1978 a Verona, a causa di una squalifica rimediata da Turone, per me giocare con giocatori che avevo visto solamente qualche volta in allenamento, era già bellissimo”. Gli aneddoti riguardanti i mostri sacri di quel calcio: Rocco, Liedholm, Sacchi. “Rocco, che quando iniziai faceva ancora parte dello staff rossonero, per non farmi montare la testa, dopo il mio esordio disse, con la sua solita ironia tagliente, che non si era manco accorto che fossi sceso in campo. Io ero contento perché avevamo vinto ed era andata bene: avevo avuto l’approvazione dei miei compagni più esperti. A pranzo, l’anno dopo, sedevo al tavolo con Rivera e Bigon, i più rappresentativi, da loro ho imparato molto”. Passaggio di consegne tra capitani, insomma: “Gianni sapeva rendere facili le cose difficili, aveva la capacità di farsi ascoltare da tutta la squadra”. “Sacchi? Preparava le partite in maniera maniacale, per lui tutti dovevano dare il 100% anche in allenamento. Ci diceva sempre che il calcio doveva essere la prima cosa, e che da soli non si vince. Il suo arrivo fu un’intuizione del presidente Berlusconi, a sua volta un personaggio straordinario: sapeva trasmetterci la voglia di vincere, facendo emozionare le persone. Noi venivamo da annate difficili e lì per lì eravamo dubbiosi”. E di momenti duri, negli anni precedenti all’arrivo del presidente più vincente della storia rossonera, in effetti ce n’erano stati anche per un assoluto campione come Baresi. Soprattutto le due retrocessioni in B: “La mia carriera è stata un’altalena: dopo una cosa bella, arrivava una caduta”. Ma poi si torna sempre a quella finale del Rose Bowl di Pasadena: Baresi si fa male al menisco nella seconda gara del girone contro la Norvegia e recupera, dopo un’operazione a tempo di record, per l’ultimo atto di Usa ’94, Italia-Brasile, meno di un mese dopo. “Sacchi mi chiese alla vigilia del match se me la sentivo, gli dissi di sì e lui si fidò di me. Sapeva che avrei dato il 200%”. Purtroppo la lotteria dei rigori fu spietata, sotto un caldo terribile: Baresi fu uno dei tiratori a fallire dal dischetto. La sua carriera però non finì lì (l’ultima partita azzurra peraltro fu Slovenia-Italia nel settembre 1994): altre tre stagioni ad altissimi livelli, con l’ennesima finale di Champions giocata (ma persa, la seconda delle cinque disputate) con l’Ajax (1995) e l’addio all’agonismo a 37 anni dopo oltre 700 presenze. Un campione che ha sempre dato l’esempio, e che dentro è sempre rimasto quel ragazzo che calciava il pallone all’oratorio di Travagliato.