MANTOVA – “Senza uno straccio di prova. Donne di resilienza”, così si intitola l’evento in programma venerdì 5 maggio, alle 17 presso la Casa del Mantegna, in Via Acerbi 47 a Mantova. L’iniziativa, aperta a tutta la cittadinanza, è stata promossa galla Comunità Bahá’í con il patrocinio della Provincia di Mantova.
Il dott. Julio Savi, esponente della comunità bahá’í italiana, parlerà dei diritti umani e della loro sistematica violazione contro i bahá’í in Iran, in particolare contro due le donne: Mahvash Sabet e Fariba Kamalabadi. Durante l’incontro, alcuni attori della Compagnia Francesco Campogalliani offriranno la lettura teatralizzata di alcune storie al femminile di detenzione e resilienza raccontate dal fratello di una delle due detenute dal titolo Il Melograno Secco. Saranno anche lette alcune poesie tratte dalla raccolta Poesie dalla prigione di Mahvash Sabet. L’evento sarà arricchito da interludi musicali a cura di Nicol Furini, arpista.
Nella storia delle religioni il sacrificio personale dei credenti è sempre stato un elemento fondamentale che ha accomunato uomini e donne che hanno offerto il proprio tempo, i propri talenti, i propri averi, la propria libertà, la propria vita. Nella storia della Fede Bahá’í, una minoranza religiosa nata in Iran nel 1844, oltre 20.000 persone hanno sofferto il martirio. Alla martoriata comunità bahá’í dell’ Iran viene ancora richiesto un grande sacrificio. Numerosi sono tuttora i bahá’í imprigionati in Iran e in particolare il mondo intero è in trepidazione per la vita di due donne Mahvash Sabet e Fariba Kamalabadi, le quali, dopo aver già trascorso 10 anni in prigione dal 2008 al 2018, hanno subito un ulteriore arresto e condanna ad altri 10 anni di detenzione.
La dottoressa Shirin Ebadi, premio Nobel e avvocato difensore di Mahvash e Fariba durante il loro primo processo, affermò nel 2008 che non era stato fornito “nemmeno uno straccio di prova” a dimostrazione delle accuse di attentato alla sicurezza nazionale o di altre imputazioni a loro attribuite e che l’unico motivo della loro reclusione era in realtà la loro appartenenza alla religione Bahá’í . Ovviamente neppure in quest’ultimo processo del dicembre 2022 sono state prodotte prove o documentatati capi d’accusa a sostegno dell’immotivata imputazione nei confronti delle due donne e la condanna ad ulteriori altri 10 anni di detenzione appare un mero crudele atto di ingiustizia.