Piazza Fontana, il dovere della memoria in un Paese che non ha una memoria nazionale pienamente condivisa

Piazza Fontana, il dovere della memoria in un Paese che non ha una memoria nazionale pienamente condivisa

12 dicembre 1969, ore 16:37: una bomba confezionata con 7 kg di tritolo esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano. Una strage che costò 17 morti e 88 feriti e diede il via alla strategia della tensione che scuoterà l’Italia fino agli anni ’80. 
Oggi ricorre il 52° anniversario di quel drammatico giorno. A distanza di oltre mezzo secolo esistono dei responsabili ma non c’è stata una condanna per strage. Solo condanne minori per associazione sovversiva e depistaggi, con le indagini che si sono dipanate per decenni tra processi, rinvii, depistaggi appunto, condanne, sentenze ribaltate e assoluzioni.  

Oggi nell’anniversario del giorno che diede via alla pagina più buia della storia del Paese rappresentata dagli “anni di piombo” vogliamo proporre la riflessione che il presidente del Consiglio Comunale di Mantova Massimo Allegretti ha fatto nei giorni scorsi in occasione della presentazione al teatro Bibiena del libro del giudice Guido Salvini il quale ha condotto l’istruttoria dal 1989 al 1997.

“Permettetemi una brevissima premessa pe sottolineare quanto io ritenga importante la presentazione di questo libro “La maledizione di Piazza Fontana”. Sono passati molti anni da quel 1969 e molti tasselli di un mosaico che appariva indecifrabile hanno, nel tempo, grazie al lavoro di alcuni Magistrati, trovato la giusta collocazione. Oggi, anche per questa strage, vi è stata una individuazione dell’ambiente e del gruppo eversivo da cui tutto prese forma.Tuttavia l’ombra appare ancora marcata sui registi che hanno portato al concepimento della strage stessa, la prima di molte.
Una strage, quella di Piazza Fontana, che voleva azzerare gli equilibri democratici faticosamente conquistati con la Costituzione Repubblicana.
Destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico. Questo sembra essere il filo comune che lega tutte le stragi avvenute in Italia.
Quello che mi preme sottolineare è la lentezza con la quale la politica sembra affrontare, al di là di quelle che io sono solito chiamare “enunciazioni rituali”, il tema dell’assunzione di responsabilità culturale e civile, e quindi politica, di quello che successe in Italia dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni 80.
La violenza come strumento di Lotta Politica. Violenza attraverso la quale poter
condizionare gli equilibri politici espressi da un Paese in piena democrazia.
Questo terribile e semplice concetto è scritto nelle varie e numerose relazioni delle Commissioni Stragi, ma sembra confondersi, diventare astratto, quasi impalpabile, quando si deve parlare al Paese tutto.
L’Italia non ha una memoria nazionale pienamente condivisa e su questo aspetto ancora troppi sono soliti insistere sulle fratture della nostra storia per preservare le proprie identità.
La politica seria e una classe dirigente seria, hanno il dovere di stimolare un processo di crescita e di consapevolezza comune.
Non possiamo dividerci sul nostro passato e la nostra storia non può più essere terreno di scontro, ma solo unicamente di confronto.
Personalmente ritengo che solo una minuziosa, quanto oggettiva, ricostruzione della realtà storica può farci comprendere meglio ciò che successe in quei tragici momenti.
Ricostruzione che non può essere affidata ad opinionisti a gettoni, ne tantomeno a schieramenti politici, qualunque essi siano.
Quando è la Politica a dettare l’agenda storiografica, la coscienza civile di una nazione è già morta. E questo vale per tutti.
Compito degli storici, attraverso i documenti emersi, e quelli che emergeranno, è quello di aiutarci a comprendere in quale contesto si siano potuti sviluppare determinati eventi.
Il compito di ciascuno di noi è quello di avvicinarci con la propria formazione, con il proprio bagaglio culturale, anche con i propri pregiudizi, ai fatti che ci hanno preceduto, ma con l’autentica esigenza di comprenderli.
Solo allora sarà possibile un confronto aperto.
Amaro forse, drammatico, ma aperto, per giungere finalmente ad una memoria condivisa, e quindi ad una democrazia pienamente compiuta, senza la quale   non potremmo costruire, come nazione, mai nulla di serio.
L’ultimo tentativo che andava nel senso di una conciliazione nazionale, che non prescindesse dall’accertamento della realtà dei fatti, fu quello del Senatore Pellegrino, Presidente della Commissione Bicamerale d’inchiesta sulle stragi dal 1996 al 2001.
Il Senatore Pellegrino auspicò, in un intervista rilasciata a “Repubblica” il 27 ottobre 2000 una soluzione Sudafricana per l’Italia dalle stragi.
Una Commissione analoga a quella del dopo apartheid per ricostruire il nostro passato di Paese “anormale”.
Anormalità che era data dalla presenza di un P.C.I. con un fortissimo radicamento popolare che contribuì a dare all’Italia una delle costituzioni più democratiche dell’occidente, che con spirito nazionale difese la centralità del parlamento e le istituzioni democratiche negli anni del terrorismo, ma contemporaneamente manteneva legami fortissimi, politici e finanziari,  con l’U.R.S.S., e quindi nella logica della guerra fredda con il nemico.
Dall’altra un partito di destra, il M.S.I., fuori dal patto costituzionale, formato almeno nei primi decenni, da coloro che la democrazia l’avevano combattuta in armi, che diventa, in nome dell’anticomunismo, un alleato dello stato assieme ai gruppi della dx eversiva.
Questa fu la nostra “anormalità”.
Il Senatore Pellegrino disse: “in cambio della verità, il perdono per i terroristi rossi e neri, anche per gli autori dei delitti politici e delle stragi, chi parlerà eviterà il carcere”.
Si può essere più o meno d’accordo con una proposta di questo tipo, ma indubbiamente è stato l’ultimo e forse unico tentativo serio di costruire un percorso comune a tutte le forze presenti in Parlamento, mettendo queste di fronte alle proprie responsabilità.
E’ rimasta lettera morta.
Il Giudice Salvini, in una trasmissione televisiva a proposito dei suoi colloqui con i personaggi protagonisti dei fatti relativi a Piazza Fontana disse: “non si indagava perché si considerava quella persona o quell’ ideologia un nemico, ma per capire delle cose che avevano colpito tutta la collettività, e che forse ormai potevano essere dette…”.

di Massimo Allegretti