MANTOVA – In fedeltà la linea c’è. Il vecchio motto che risuona, insieme ad altri cimeli di un passato che scorrono come diapositive non senza una patina di nostalgia, tra le mura spesse dell’Esedra di Palazzo Te per il Mantova Summer Festival, ha una sua logica. Una sua coerenza. L’ultima tappa di un tour prima inatteso, poi esteso dalle prime date berlinesi (che avrebbero anche dovuto essere le uniche) a un mezzo giro dello Stivale, chiacchierato e discusso all’inverosimile più per l’operazione in sé che per l’opportunità di rimettere insieme i pezzi della band che più di tutte ha scritto la storia – apocrifa – della musica rock italiana, finisce a Mantova, ultimo lembo di terra – apocrifo anch’esso, trovandosi ufficialmente in Lombardia – di quell’Emilia paranoica che nel corso della serata verrà rispolverata dal cassetto dei ricordi.
La reunion trionfale della band di Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur si ferma qui, ultima stazione di un viaggio che ha riunito fan di ogni età, da quelli che c’erano ai tempi e adoravano “in diretta” il culto dei CCCP e poi dei CSI, e i più giovani, talvolta informati e consapevoli, talvolta spaesati di fronte all’inusuale, per non dire spesso spiazzante, spettacolo che prende forma sotto i loro occhi.
Ortodossia è un altro termine che riecheggia. Un termine che suona ormai desueto, almeno nell’accezione che se ne fa qui. Il nome stesso della band, i suoi riferimenti culturali, la bandiera rossa del PCI che a un certo punto Annarella, nei suoi continui cambi di personaggio, sfodera e porta da un capo all’altro del palco, sono apparizioni, feticci, simboli di un tempo andato, un tempo che – almeno lui – non tornerà, ma che nondimeno rivive finché ci sarà ancora qualcuno disposto a rappresentarlo.
Tutto questo è in qualche modo propedeutico, è l’apparato stesso e viene anche prima del concerto. Le migliaia di persone – o buona parte di esse – assiepate sotto il palco (impossibile quantificarle, ma senza dubbio numerose) conoscono, appunto, l’ortodossia e la rispettano. Meglio ancora, ne fanno parte. Ed è questa, forse, la vera magia di un evento che è al tempo stesso un regalo inaspettato e, forse, un ultimo atto. Forse, perché di questi tempi mai dire mai.
“The last dance”, direbbero gli americani, ma qui sono altri i luoghi che vengono rievocati. Luoghi che non esistono più: l’ex Unione Sovietica, l’ex Germania dell’Est. Entrano ed escono da canzoni che sono figlie più che legittime dei loro tempi, di quei tempi. Da “Depressione caspica” che apre il concerto a un Medioriente che forse anch’esso non esiste più, ma che è più che mai vivido nella doppietta “Radio Kabul”-“Punk Islam”. C’è la marcetta beffarda di “Oh! Battagliero”, c’è il dub degli albori di “And the radio plays”. Si cita Majakovskij e, anche se non viene citato, c’è pure Tolstoj a ispirare in qualche modo “Guerra e Pace”. Sono storie di oltre cortina o, se si preferisce, è semplicemente punk filosovietico.
Ma ci sono anche due cover, “Bang Bang (you shoot me down)” con un bellissimo duetto tra Ferretti e Giudici e “Kebabtraume” dei DAF a tingere vagamente di kraut-rock la serata mantovana. Una serata che scivola sulle linee elettriche mirabilmente gestite da Massimo Zamboni, e che non manca di riservare un finale che, in un concerto che è una sorta di greatest hits, regala emozioni su emozioni con la splendida “Curami”, una “Emilia Paranoica” che non perde una goccia di intrinseca genialità, una versione da brivido di “Annarella” e un sipario che si chiude sulla riproposizione quasi a capella di “Amandoti”, il solo violino ad accompagnare la voce di Ferretti. Brividi, emozioni, magari – sotto sotto – anche qualche lacrima.