SAN GIORGIO BIGARELLO – E’ stata posata in tarda mattinata la terza pietra d’inciampo nel territorio comunale di San Giorgio Bigarello. E’ dedicata a Pierino Galusi, giovane soldato nativo di Frassino (all’epoca San Giorgio) che come centinaia di migliaia di soldati italiani all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 decise di non continuare la guerra al fianco dei tedeschi e fu pertanto deportato in Germania, dove morì l’anno dopo all’età di 22 anni.
La storia di Pierino Galusi è stata raccontata in auditorium dalla pronipote Emanuela Benfatti davanti ai parenti, alle autorità cittadine (presenti il sindaco Davide Dal Bosco, la vice Federica Nota e l’assessore Beniamino Morselli) e militari e alle classi prime delle scuole medie appartenenti al vicino Istituto Comprensivo. Gli interventi, tra i quali quello di Eugenio Iafrate, vicepresidente dell’associazione nazionale Ex Deportati di Verona, hanno sottolineato l’importanza di perpetuare il ricordo di quanto avvenuto, anche e soprattutto nelle nuove generazioni, affinché tragedie come queste non avvengano mai più.
E’ seguita la cerimonia della posa della pietra d’inciampo sotto il porticato del centro culturale “Frida Kahlo”, seguita da un grande applauso di tutti i presenti. A pochi metri di distanza, le classi quinte delle scuole elementari hanno addobbato il grande abete natalizio (che verrà tolto nei prossimi giorni) con tante farfalle gialle di carta, simbolo preso in prestito da una celebre poesia di Pavel Friedman.
“Ogni anno il Prefetto su delega del Presidente della Repubblica – spiega Dal Bosco – consegna ai parenti una medaglia alla memoria degli internati italiani e come amministrazione comunale abbiamo deciso insieme alle famiglie che ogni anno vengono premiate di lavorare con loro per poter portare il ricordo di queste persone anche sul nostro territorio”.
LA STORIA DI PIERINO GALUSI
Pierino Galusi è stato uno dei tanti giovani italiani che, arruolati durante la Seconda Guerra Mondiale, si sono trovati a fronteggiare le atrocità del conflitto. Nato in una famiglia di Frassino (Mantova), era il secondo di quattro figli e nel 1943, all’età di 21 anni, si trovava a Trento, dove prestava servizio nei reparti di autieri di marcia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la sua vita cambiò per sempre. Come centinaia di migliaia di altri soldati italiani, Pierino si rifiutò di combattere al fianco dei tedeschi e, dopo essere stato catturato, venne deportato nei lager nazisti. Caricato su un carro bestiame insieme ad altri prigionieri, iniziò il suo calvario.
Destinato al campo di concentramento Stalag III B, a Fürstemberg (oggi in Germania), Pierino si trovò a vivere condizioni disumane. Il campo ospitava circa 50.000 prigionieri provenienti da diversi Paesi, tra cui italiani, americani, francesi, cecoslovacchi ed ebrei. Le condizioni di vita erano terribili: lavoro forzato, malnutrizione, punizioni frequenti e insopportabili condizioni igieniche. Al suo arrivo venne subito perquisito e registrato, venne emessa la personalkarte, un libretto che conteneva i dati del prigioniero, la sua impronta digitale, la foto e dove venivano annotate altre informazioni durante la prigionia. Gli venne inoltre assegnato il numero di matricola 303475. Nonostante la dura realtà, Pierino, come tanti altri, continuò a lottare per sopravvivere.
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Essendo fabbro, venne impiegato in lavori pesanti, prima a Repten e poi a Cottbus, dove lavorò per l’industria bellica tedesca, assemblando materiali per l’aviazione. Tuttavia, nel 1944, la sua salute venne compromessa dalla tubercolosi, malattia che lo portò alla morte in data 2 maggio 1944. Fu sepolto in un cimitero forestale di Spremberg, dove rimase fino al 1973, quando le sue spoglie furono riportate al Frassino, dove finalmente gli fu celebrato il funerale e dove ricevette una degna sepoltura.
La ricostruzione degli ultimi anni di vita di Pierino Galusi è stata resa possibile grazie agli archivi di Arolsen, un centro di documentazione internazionale che ha permesso di ricostruire la sua storia attraverso documenti, fotografie e testimonianze. La sua vicenda, come quella di tanti altri internati, rappresenta un’importante eredità storica che deve essere tramandata alle nuove generazioni.