VIADANA – Il femminicidio di Maria Campai ha riportato in qualche modo alla memoria vecchie pagine di storia che i cittadini di Viadana hanno cercato di dimenticare. Dagli anni Novanta ai giorni nostri, per non andare ancora più in là con il tempo, non c’è stato un decennio in cui l’operosa cittadina in riva al Po non sia stata suo malgrado teatro di omicidi efferati. Un episodio, in particolare, è entrato nell’immaginario popolare, al punto che su di esso sono stati scritti fiumi di inchiostro – compreso un romanzo – e che ha ispirato persino una rappresentazione teatrale sui temi del fascismo e dell’antifascismo, della memoria e del perdono.
L’omicidio in questione avviene all’alba degli anni Novanta: l’8 novembre del 1990, per la precisione, nel pieno centro di Viadana. I fatti da cui il delitto scaturisce, però, accadono molti anni prima. Nel 1944, per la precisione: anni di guerra, di bande fasciste e di associazioni partigiane clandestine che si combattono tra l’Emilia e la Lombardia. Una di queste ultime prende il nome di Libera Associazione Giovanile di Mantova e tra i suoi fondatori c’è un ragazzo di nome Giuseppe Bonfatti. Ha solo 19 anni quando l’associazione partigiana nasce, nell’ottobre del 1943. E’ nativo di Salina, piccola borgata che oggi si divide tra due Comuni, Pomponesco e Viadana. Il suo nome di battaglia è Remo.
Bonfatti – o, se si preferisce, Remo – viene anche arrestato e passa tre mesi, a cavallo tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, in carcere. E’ l’inizio di quello che sembra effettivamente un romanzo: dopo la condanna a cinque anni di pena viene portato al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi. Non ci rimane molto: nel giugno del 1944, insieme a un amico, riesce a fuggire. Datosi alla macchia, decide di entrare in un altro gruppo partigiano: Giustizia e Libertà.
Poco tempo dopo, a Bonfatti e compari viene affidato il compito di tendere un’imboscata a un comandante delle camicie nere, tale Fertonani. L’agguato fallisce e, come quasi sempre accade, segue un rastrellamento. Il bilancio è pesantissimo: 35 partigiani vengono arrestati e portati in campi di concentramento. Ma la furia fascista si abbatte in modo particolare contro la famiglia di Giuseppe Bonfatti: la casa viene bruciata mentre all’interno ci sono la madre e la sorella, che riescono a salvarsi ma vengono successivamente picchiate. Il bestiame nella rimessa, invece, viene lasciato morire dalle brigate nere.
Passano 46 anni. La guerra è ormai solo un lontano ricordo, così come le battaglie tra fascisti e anti-fascisti. Qualcuno, però, non ha mai dimenticato. Quel qualcuno è Giuseppe Bonfatti, che non ha mai scordato il soprannome di Remo e non ha mai perdonato ciò che gli è stato perpetrato molti anni prima. Si è rifatto una vita dall’altra parte del mondo, in Brasile, ma non ha mai dimenticato la sua terra natale, Viadana. Ritorna in riva al Po e va in cerca di coloro che gli hanno distrutto la casa, ucciso le bestie, seviziato madre e sorella. Uno, in particolare, se lo trova davanti per caso – pare – all’interno di un bar. Si chiama Giuseppe Oppici, e Bonfatti se lo ricorda bene: era uno dei componenti della banda fascista.
Il resto, ovvero l’epilogo, è storia ben nota: Bonfatti lo invita fuori dal bar e lo uccide a colpi di gravina, una sorta di piccone. Mentre esegue la sua vendetta, Bonfatti fa in tempo a dire alla vittima: “sono tornato apposta per fartela pagare”. Poi rimane lì, fermo e apparentemente tranquillo, ad attendere l’arrivo delle forze dell’ordine. Morirà cinque anni più tardi per un tumore al cervello.
Le tematiche politiche ed esistenziali di quell’omicidio, del tempo che passa ma non scorre, della vendetta e del perdono, degli ideali mai negati, hanno ispirato come detto libri e rappresentazioni. Del napoletano Giancarlo Piacci è l’opera teatrale “Non rovinateci il pranzo. Processo a un partigiano” del 2015, che trae spunto proprio da quegli eventi. Esattamente come accade nel romanzo “Rosso nella notte bianca” del valtellinese Stefano Valenti, pubblicato nel 2017 per Feltrinelli. Opere recenti, dunque, a testimonianza di come quell’episodio sia rimasto vivido nella memoria collettiva. Il libro di Valenti, tra l’altro, fu tra i quattro finalisti del Premio Viadana di quell’anno, con tanto di presentazione – come da prassi – al MuVi, ovvero a pochi passi da dove si era consumato il “delitto del piccone”.