La storia: “Tanti come la mia Anita morta in culla. Aiutare le famiglie da Nord a Sud”

(Adnkronos) – Era l’11 dicembre 1998, meno di 15 giorni a Natale. Una mamma tiene in braccio la sua bimba dopo averla allattata. E’ tarda sera. Per non svegliarla la mette delicatamente nella culla a pancia in giù, senza girarla. “D’istinto le mie figlie le avevo sempre messe a pancia in su, ma quella notte no”, racconta oggi Allegra all’Adnkronos Salute. “Verso mezzanotte mi sveglio. Di solito c’era la poppata notturna e la piccola non l’aveva ancora reclamata. Vado a controllare. Era lì, come un bambolotto, molle e abbandonata. Per fortuna c’era mio marito a casa. Lavorava molto all’estero, ai tempi. Abbiamo tentato di rianimarla, lui aveva fatto un corso di primo soccorso, ma si è reso conto subito che non c’era niente da fare. La mia Anita non c’era più”. Inizia così il percorso doloroso di Allegra Bonomi, una mamma che si è dovuta confrontare con la morte inaspettata della sua bambina.  

Un dramma simile a quello che stanno vivendo anche adesso altri genitori in Italia. Ultimo caso un neonato di 3 mesi trovato nella notte privo di sensi nella sua culla da mamma e papà a Montebelluna (Treviso), riportano i media locali. Il piccolo è stato anche rianimato e trasferito d’urgenza in ospedale, ma le sue condizioni erano critiche e non ce l’ha fatta. Le cause dell’arresto cardiaco ovviamente andranno accertate. Appena pochi giorni prima, sempre in provincia di Treviso, un bimbo di 11 mesi era stato trovato senza vita nella stanza dell’asilo nido in cui dormiva. “Anita stava benissimo, aveva tutti i parametri perfetti”, ricorda Allegra tornando indietro con la mente. Quello che le è successo si spiega con una sigla: Sids, Sudden Infant Death Syndrome. La morte in culla le ha portato via una figlia e Allegra oggi, e ormai da anni, chiede che le famiglie come la sua possano avere accesso allo stesso supporto e agli stessi protocolli da Nord a Sud. 

E’ un tema di cui si occupa da presidente dell’associazione che riunisce e sostiene i genitori che hanno vissuto questa esperienza: Semi per la Sids, realtà fondata più di 30 anni fa da un papà, il diplomatico Pietro Sebastiani, che aveva perso anche lui così sua figlia nel 1991. L’associazione proprio in questi giorni fa gli onori di casa a Firenze, in collaborazione con la Fondazione Meyer, alla Conferenza internazionale dedicata alla morte in culla e alla morte perinatale dell’Ispid (International Society for the study and prevention of Perinatal and Infant Death), e dà il via alla Baby Loss Awareness Week, settimana della consapevolezza sul lutto perinatale, illuminando simbolicamente l’ospedale degli Innocenti.  

Difficile trovare le parole per ripercorrere momenti così: “Per me fu una doccia fredda – dice Allegra – La bambina aveva 42 giorni. Sono arrivati i soccorritori del 118 a casa, hanno tentato anche loro di rianimarla, ma poi hanno potuto solo constatare che era deceduta. Dopo di loro anche i carabinieri, che il 118 deve allertare. Oramai si erano fatte le 3 del mattino. I due militari, due bravi ragazzi, hanno capito subito. Quella sera ho parlato anche con il magistrato, che ha aperto e chiuso subito la nostra pratica. E poi c’è stato da decidere per l’autopsia. Per fortuna noi abbiamo deciso di farla. Dico per fortuna perché è importante poi, anche per l’elaborazione del lutto”.  

Oggi che di anni ne sono passati 25, da quell’11 dicembre, Allegra sa cosa dire a una mamma che si trova a vivere lo stesso incubo. “Le direi: adesso è come se fossi in mezzo alle macerie di un terremoto, tutto intorno a te è distrutto. Ma ti devi alzare e cominciare a camminare. Camminerai e cadrai. Ti alzerai, camminerai e cadrai, finché a un certo punto inizierai anche a correre. Perché ce la si fa, anche se con fatica, si sopravvive anche a questi grandi dolori”. Ma è importante avere una rete di sostegno, sottolinea Allegra, “e al momento in Italia manca un’uniformità a livello nazionale. Abbiamo Regioni virtuose che hanno creato protocolli specifici e hanno già sistematizzato e organizzato all’interno del percorso di queste famiglie un servizio di supporto che deve proseguire anche dopo, quando per esempio nasce un altro bambino. C’è infatti anche il tema del fratellino successivo, che deve essere monitorato e controllato”.  

Allegra per esempio ha avuto un altro figlio, dopo Anita: “Ero in contatto con dei centri di riferimento specializzati che mi hanno dato un monitor domiciliare per controllare i parametri cardiorespiratori del bimbo, la saturazione. Cose che mi hanno consentito di pensare che lui stesse bene e anche di dormire la notte”. Riguardo alle Sids, un punto fermo su cui la presidente dell’associazione mette l’accento è quello dell’autopsia: “Purtroppo spesso i genitori non vogliono, i sanitari li assecondano e poi rimangono domande senza risposta che diventano pesanti nel tempo. Per noi l’esito fu Sids. Vengono definite morti bianche, una diagnosi per esclusione perché non c’è niente dal punto di vista medico-legale e anatomopatologico”.  

All’epoca Allegra aveva già una figlia più grande e nessuno le aveva parlato di regole per la nanna sicura, né del rischio Sids. “Nei corsi pre-parto glissavano sull’argomento, di cui però negli Usa già si parlava nel 1994”, riflette. Oggi conosce bene il valore della sensibilizzazione. “Bisogna fare campagne a livello nazionale – esorta – i media devono fare la loro parte. E bisogna considerare anche la popolazione straniera. Abbiamo fatto opuscoli in altre 8 lingue perché gli operatori abbiano del materiale anche per queste famiglie. E poi ci vuole una volontà a livello nazionale per diffondere in maniera capillare regole ormai assodate”, che l’associazione ha messo insieme anche in un sito web (nannasicura.it). “Dove si sono fatte campagne, i casi si sono ridotti più della metà”, assicura. 

Come si può uscire da un dramma simile? Per Allegra una chiave è stata “la condivisione – racconta – Un esperto mi ha indirizzato all’unica associazione che allora esisteva in Italia su questi temi. Per me e mio marito è stato un po’ il viaggio della speranza, disperati come eravamo, increduli, affaticati da tutto, dal dispiacere, dalla gestione della figlia più grande che aveva 2 anni, dai rapporti con le persone, che non sanno come consolarti e a volte ti evitano”. Allegra conosce così Ada Macchiarini, all’epoca presidente dell’associazione, che aveva perso anche lei suo figlio Giovanni qualche anno prima. “Mi sono trovata di fronte una donna bella. Si capiva che era sopravvissuta. E allora mi sono detta: se ce l’ha fatta lei posso farcela anche io”.  

Poi, continua, “uno cerca a modo proprio di trovare delle strategie. Per la mia esperienza aiuta incontrare altri genitori che hanno passato o stanno passando la stessa esperienza. Perché in quei momenti uno pensa di essere impazzito, di fare cose strane, in realtà sono cose che abbiamo fatto tutti: darsi delle colpe, ripercorrere in modo ossessivo tutti i giorni e le ore prima del decesso, operare forme di rimozione come buttarsi sul lavoro, non parlare dell’argomento. Anche una psicoterapia mirata, con professionisti formati, a mio avviso è molto utile, soprattutto nelle prime fasi”. E poi, conclude, “serve cercare di dare un senso a quello che succede. Io il mio senso l’ho trovato nel dire che non voglio che accada a nessun altro, mai più”. E oggi si dedica a questo, con il consiglio direttivo dell’associazione e i genitori “che sono tanti: abbiamo più di 400 soci”. 

PROTOCOLLO NAZIONALE IN STALLO – “L’Italia ospita quest’anno la prima conferenza post pandemica della Società internazionale per lo studio e la prevenzione della morte perinatale e infantile. Il Palazzo dei Congressi di Firenze raduna in questi giorni i maggiori esperti mondiali di Sids, la sindrome della morte improvvisa nel lattante, quella che siamo soliti chiamare ‘morte in culla’. E’ un’occasione rilevante per riportare l’attenzione del dibattito pubblico sulle circa 250 famiglie colpite ogni anno nel nostro Paese da questo terribile lutto”. Si tratta di una stima, “perché ancora oggi manca un registro nazionale di queste morti”. A spiegarlo è Gaetano Bulfamante, anatomopatologo, membro di un gruppo di lavoro del ministero della Salute dedicato a questi temi.  

Per l’esperto questa è l’occasione per segnalare “lo stallo di quasi 10 anni per un protocollo nazionale che permetterebbe di migliorare le diagnosi, fornire supporto alle famiglie, facilitare la raccolta di dati affidabili, contribuire alla prevenzione e alla ricerca scientifica” sulla Sids. “Nel lontano febbraio del 2006 – ripercorre – il Parlamento italiano approvò un disegno di legge con l’obiettivo di dare una spinta alla realizzazione di un progetto omnicomprensivo nazionale che promuovesse le misure per la riduzione del rischio Sids e fornisse adeguata assistenza e supporto psicologico alle famiglie colpite. Il 7 ottobre 2014 il ministero della Salute aveva approvato con decreto i protocolli diagnostici nei casi della morte improvvisa infantile e della morte inaspettata del feto, rinviando però alla Conferenza Stato-Regioni l’approvazione del protocollo operativo sul territorio che il gruppo di lavoro incaricato aveva proposto”.  

Un passaggio fondamentale, in quanto definiva aspetti importanti come il ruolo dei servizi di emergenza urgenza, dell’anatomopatologo e del medico legale, i rapporti operativi tra magistratura e servizio sanitario, e così via. “Questo protocollo operativo, indispensabile per dare attuazione ai due protocolli diagnostici approvati, discusso ripetutamente in Commissione Salute non è mai stato approvato, poiché non si è mai raggiunta l’unanimità tra le Regioni”, sottolinea Bulfamante, che parla anche di questo in occasione della Conferenza sulla Sids.  

Da qui deriva dunque “lo stallo che c’è da quasi 9 anni sul territorio nazionale, con la sola eccezione delle Regioni Liguria e Toscana che hanno organizzato un modus operandi coerente con le indicazioni dei protocolli in questione”. Per il resto, continua Bulfamante, “vediamo comportamenti gravemente disomogenei e, quasi sempre, nemmeno aderenti a quanto già definito in Gazzetta Ufficiale”. 

Il completamento dell’iter di approvazione e attuazione dei protocolli è importante per diverse ragioni, sottolinea: “Aiuta a garantire che le procedure diagnostiche siano uniformi in tutto il Paese, riducendo il rischio di errori o interpretazioni discordanti, ma soprattutto garantisce che la famiglia che viene colpita dal dramma di una morte perinatale o in culla possa ricevere fin da subito un supporto adeguato e strutturato. Da una diagnosi standardizzata di Sids deriverebbe anche una raccolta di dati epidemiologici affidabili, coerenti e comparabili tra le diverse aree territoriali e nei diversi anni”.  

“Questo – conclude Bulfamante – rappresenterebbe un patrimonio essenziale per identificare tendenze, valutare l’efficacia delle misure preventive, condurre ricerche scientifiche e avviare in maniera organica in tutta Italia iniziative formative per genitori e operatori, utili a diffondere ancora di più le buone pratiche per il posizionamento sicuro dei neonati durante il sonno e a ridurre i fattori di rischio noti”. (di Lucia Scopelliti) 

(Adnkronos)