Mes, che cos’è e qual è il significato politico

(Adnkronos) – Il Mes, European Stability Mechanism (Meccanismo Europeo di Stabilità in italiano) anche detto fondo Salva-Stati, è il meccanismo per la risoluzione delle crisi creato nel 2012 per gli Stati dell’area euro. Serve a fornire assistenza ai Paesi dell’Eurozona che hanno seri problemi finanziari; raccoglie fondi sul mercato dei capitali e mediante transazioni sul mercato monetario. Non è finanziato direttamente da denaro dei contribuenti. Ha sede a Lussemburgo, è un’istituzione intergovernativa (non Ue) e ha una capacità di prestito massima di 500 mld di euro.  

Dal luglio 2013 ha sostituito l’Efsf, European Financial Stability Fund. Ha fornito assistenza macrofinanziaria alla Grecia, a Cipro, al Portogallo e all’Irlanda e prestiti per ricapitalizzare le banche alla Spagna. L’Italia è il terzo maggior socio del Mes, dopo Germania e Francia, con 14,33 mld di capitale versato e 125,4 mld di capitale sottoscritto. Il direttore è il lussemburghese Pierre Gramegna, che ha sostituito il tedesco Klaus Regling. 

 

La riforma dell’Esm venne concordata a grandi linee nell’Eurogruppo del giugno 2019, quando il ministro dell’Economia era Giovanni Tria, nel governo Conte uno, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle. E’ basata su diversi capitoli (backstop del Fondo Unico di Risoluzione, linee di credito del Mes, sostenibilità del debito, cooperazione del Mes con la Commissione Europea), si è resa necessaria per dare al Mes una serie di nuovi compiti per completare l’Unione economica e monetaria e, appunto, il Mes. Tra questi obiettivi, c’è anzitutto il backstop, cioè la garanzia di ultima istanza, per il Single Resolution Fund (Srf), o Fondo Unico di Risoluzione: si tratta di un fondo, finanziato dalle banche stesse e non dai contribuenti, che interviene per ‘risolvere’, come si dice in gergo, le banche fallite. Questa garanzia aggiuntiva dovrebbe essere fornita dal Mes, che interviene, appunto, come garante di ultima istanza, cioè nel caso in cui l’Srf si trovi a corto di fondi, con ulteriori 68 mld di euro. Non è una garanzia illimitata, ma aiuta a rafforzare quelle esistenti.  

Il backstop da 68 mld entrerà in vigore, se la riforma verrà approvata, entro il primo gennaio 2024. Il Single Resolution Fund potrà fare ricorso al Mes, per l’appunto, solo in ultima istanza, cioè se avrà esaurito le sue risorse e il Single Resolution Board, che lo controlla, non fosse in grado di raccogliere risorse in altro modo. La decisione sulla concessione della linea di credito dal Mes all’Srf viene presa, sulla base di una richiesta del Srb e di una proposta del direttore del Mes, dal board dei governatori del Mes, che sono alti funzionari dei ministeri delle Finanze dell’area euro. La decisione del board avviene per consenso, ma se la Commissione Europea e la Bce ritengono che sia in gioco la sostenibilità dell’Eurozona, allora si può votare a maggioranza qualificata (85% dei voti espressi), secondo una procedura che esiste dal 2012 per gli strumenti di aiuto finanziario.  

 

Dal 2019 la riforma del Mes è stata la ‘croce’ che hanno dovuto portare tre governi, oltre a quello che la negoziò, per via delle polemiche politiche, incoraggiate dalla cattiva fama che ha il Meccanismo in Italia, a causa delle riforme draconiane imposte a diversi Paesi in cambio dell’aiuto offerto. Già il successore di Tria, Roberto Gualtieri, ebbe a lamentarsi, nel novembre 2019 (governo Conte due, quando la Lega era all’opposizione), di venire attaccato per quella riforma, essenzialmente già concordata, proprio da chi l’aveva avallata.  

E nella Lega, anche nelle anime meno entusiaste del segretario Matteo Salvini, la riforma del Mes è ancora oggi largamente impopolare: “Non è che stiamo con Salvini: stiamo coi nostri soldi”, dice all’Adnkronos una fonte leghista a Bruxelles, precisando che già all’epoca di Tria era stato chiaramente detto che “se metti le mani nelle tasche degli italiani, noi non te la voteremo mai”. E, assicura la fonte, “noi non la votiamo. Tra i parlamentari la grande maggioranza ha detto ‘assolutamente no'”.  

Per il governo Conte due la riforma del Mes rimase un problema politico, tanto che la firma del trattato di riforma venne rimandata, anche a causa della pandemia di Covid-19 esplosa nella primavera del 2020, fino all’inizio del 2021, quando venne firmato e partì il processo di ratifica. Perché il trattato entri in vigore occorre la firma di tutti e 20 gli Stati membri dell’area euro (il Mes è un organismo intergovernativo, non comunitario): nel frattempo, nell’Eurozona è entrata la Croazia, che ha ratificato subito. L’Italia resta a tutt’oggi l’unico Paese dell’area euro a non averlo ratificato: il Parlamento non lo ha fatto né con il Conte due (5 settembre 2019 – 13 febbraio 2021), né con Mario Draghi (13 febbraio 2021 – 22 ottobre 2022), né con il governo di Giorgia Meloni.  

 

La riforma prevede modifiche alle linee di credito che il Mes mette a disposizione degli Stati: ce ne sono di due tipi, le Precautionary Conditioned Credit Lines (Pccl) e le Enhanced Conditions Credit Lines (Eccl); la riforma punta a renderle più “efficaci”. Le Pccl sono a disposizione di Stati membri dell’area euro con fondamentali economici “solidi”, ma che vengono colpiti da choc avversi, al di là del loro controllo. La Pccl funziona come una polizza di assicurazione: in pratica, l’assunzione di base è che il fatto stesso che esista sia sufficiente a placare i mercati; in questo modo, non dovrebbe esserci neppure bisogno di utilizzarla, perché i ribassisti sanno che scommettono non contro il singolo Paese, ma contro il Meccanismo, che, pur non essendo la Bce, ha una discreta potenza di fuoco. Il rischio di bruciarsi diventa più alto.  

In poche parole, le Pccl sono concepite per disinnescare le crisi, impedendo che diventino più gravi (come è successo nel caso della Grecia, dove per tamponare la situazione all’inizio sarebbero bastate poche decine di miliardi), circostanza che invece costringerebbe lo Stato in questione a richiedere un prestito vero e proprio del Mes, accompagnato da un programma di aggiustamento economico. Linee di credito simili alle Pccl sono fornite oggi anche dall’Fmi e sono state usate da diversi Paesi. Con la riforma, l’accesso alle Pccl sarà fondato su una serie di criteri e riservato ai membri del Mes la cui situazione finanziaria ed economica sia “robusta” nei fondamentali e il cui debito pubblico sia “sostenibile”. 

I criteri includono: non aver superato, nei due anni precedenti la richiesta della Pccl, il 3% nel rapporto deficit/Pil; un saldo strutturale pari o superiore ad un parametro specifico per Paese; un debito pubblico inferiore al 60% del Pil o una riduzione nel differenziale rispetto al 60% nei precedenti due anni a una media di un ventesimo l’anno (come prevede la regola del debito, destinata a sparire se il patto di stabilità verrà riformato). Il Paese, tra l’altro, deve avere accesso ai mercati dei capitali a condizioni ragionevoli. Chi richiede la Pccl non dovrà firmare un memorandum d’intesa e fare riforme, ma firmerà una lettera di intenti, in cui si impegna a continuare a rispettare tutti i criteri di eligibilità; il rispetto degli stessi verrà valutato ogni sei mesi. Se un Paese membro del Mes non rispetta più i criteri, allora la linea di credito viene interrotta, a meno che il board non decida per consenso di mantenerla. Il Paese cui viene recisa la linea di credito può comunque chiedere un altro tipo di aiuto al Mes. I membri del Meccanismo che non rispettano i criteri per la Pccl possono chiedere la Eccl, Enhanced Condition Credit Line; devono comunque avere una situazione economica e finanziaria “solida”.  

Il Paese che richiede una Eccl deve siglare un memorandum d’intesa, con cui si impegna a rispettare le condizioni previste dal memorandum stesso. Il Paese si impegna ad adottare misure correttive che affrontino le debolezze e volte ad evitare problemi futuri per quanto riguarda l’accesso ai mercati. Quando ottiene una Eccl, oppure preleva da una Pccl, il Paese è soggetto a sorveglianza aumentata da parte della Commissione Europea, sorveglianza che copre le condizioni finanziarie del Paese e il suo sistema finanziario. Queste regole esistono dal 2012 e rimangono invariate nel trattato che dovrebbe emergere dalla riforma. C’è poi il capitolo delle Cac (Collective Action Clauses), le clausole di azione collettiva, previste nei titoli di Stato: sono clausole che consentono di cambiare le condizioni contrattuali a maggioranza, rendendo i cambiamenti efficaci per tutti i titoli, non solo per quelli detenuti da coloro che hanno acconsentito ad una ristrutturazione. Le Cac esistono da anni (vengono previste nei titoli di Stato dell’Eurozona, quindi anche nel nostro debito, fin dal 2013) e non sono un’invenzione della riforma; sono state introdotte essenzialmente per rendere più facili e ordinate le ristrutturazioni dei debiti sovrani (i default sono spesso disordinati e difficili da concludere, per via del mancato accordo di minoranze che bloccano l’accordo di ristrutturazione). 

 

 

(Adnkronos)