Parità salariale tra uomini e donne ancora un miraggio, Italia resta indietro

(Adnkronos) – Il divario di genere è un tema sempre più sotto i riflettori: le differenze culturali sono ancora oggi radicate e vanno a costituire disuguaglianze in molteplici aree sociali, compresa la sfera lavorativa, dove si evidenzia oltre al gender gap anche un gender pay gap. A fotografare lo scenario attuale ci ha pensato Lhh – provider unico e globale di soluzioni hr end-to-end che guida aziende e persone nell’intero ciclo professionale – che, assieme all’Osservatorio JobPricing e Idem | Mind the gap, ha elaborato un’analisi sul tema. 

Tra le molteplici evidenze, si evince che negli ultimi trent’anni le donne hanno fatto moltissimi progressi in tema di partecipazione al mercato del lavoro, ma la strada si mostra ancora lunga e la parità è lontana dall’essere raggiunta. Basti pensare che è come se le lavoratrici italiane iniziassero a percepire uno stipendio a partire da febbraio, pur lavorando regolarmente dal 1° gennaio. 

Nel 2022 l’occupazione femminile è tornata a crescere, superando il 51%, contro il 69% degli uomini. L’aumento del numero di donne entrate o rientrate a far parte nel mondo del lavoro è testimoniato anche dalla riduzione del tasso di disoccupazione, che si attesta al 9,5% per le donne e al 7% per gli uomini. L’aumento della partecipazione economica delle donne al lavoro non risolve un gender gap evidente, in quanto le donne occupate sono di meno, trovano meno lavoro e tendenzialmente sono meno spinte a far parte della forza lavoro, oppure, scoraggiate dalla difficoltà a trovare un impiego, rinunciano a cercarlo più̀ facilmente rispetto agli uomini. Questa considerazione non vale però per tutte: dal punto di vista del livello di istruzione, sono principalmente le non laureate a scontare una minor presenza nel settore rispetto ai colleghi. Al contrario, le donne laureate con un’occupazione sono più̀ degli uomini. 

Le discrepanze si fanno decisamente sentire anche quando si tratta di salario. L’Osservatorio JobPricing, che monitora le retribuzioni del settore privato (ad esclusione di sanità e istruzione private), per l’anno 2022 ha registrato un pay gap calcolato sulla ral annuale in full time equivalent (fte) pari all’8,7%, che arriva al 9,6% considerando la rga (retribuzione globale annua, comprensiva cioè della parte variabile). In termini monetari, questo si traduce in un gap di circa 2.700 euro lordi sulla ral e di circa 3.000 euro sulla rga. Analizzando l’andamento del pay gap dal 2014 a oggi, è possibile notare come ci sia stato un tendenziale miglioramento del differenziale retributivo, ma la situazione è ancora lontana dall’essere risolta. 

Se si guarda al divario retributivo di genere complessivo (gender overall earnings gap), ovvero alla differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, questo si stima per l’Italia al 43%, posizionando lo Stivale al quarto posto tra i divari più alti in Europa, dopo Paesi Bassi, Austria e Svizzera. In base all’indagine svolta, emerge che le donne rappresentano la minoranza tra i ruoli dirigenziali e quadri. La disparità risulta più evidente nel settore privato (dirigenti: 83% uomini, 17% donne; quadri: 69% uomini, 31% donne), mentre, se si guarda il dato del mercato nel suo complesso, la situazione risulta migliore, segno che nel settore pubblico il gap, seppur presente, è meno accentuato (dirigenti: 67% uomini, 33% donne; quadri: 55% uomini, 45% donne). 

Nell’ambito del privato, le funzioni che contano più donne manager (dirigenti e quadro) sono auditing, compliance e risk management (donne dirigenti: 2,2% e quadri 27,3%), legale (donne dirigenti: 1,8% e 11,8% quadri), area tecnica & ricerca e sviluppo (donne dirigenti: 0,9% e quadri 10,6%), risorse umane e organizzazione (donne dirigenti: 1,4% e 9,8% quadri), marketing e comunicazione (donne dirigenti: 1,1% e quadri 9,6%). Inoltre, è bene notare come, tra le società quotate, le amministratrici delegate rappresentino solo il 2% del totale (3,3% nel 2013) e soltanto il 3,8% di chi ricopre il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione (2,9% nel 2013). Quindi, si nota come tra gli incarichi esecutivi la situazione non sia di fatto cambiata nel corso dell’ultimo decennio. 

E’ evidente anche ai vertici più alti delle imprese italiane la presenza di un ‘soffitto di cristallo’ (cioè la fattiva difficoltà nell’accesso a un pieno sviluppo di carriera fino all’apice), che non permette alle donne di riuscire ad arrivare nelle posizioni davvero importanti e apicali delle organizzazioni; o del ‘pavimento appiccicoso’ (ovvero la lunga permanenza nei ruoli più bassi delle organizzazioni), che le blocca direttamente nelle posizioni minori. Si tratta di un problema a discapito della competitività delle imprese stesse e della società nella sua interezza.  

Sono diversi gli studi che dimostrano che le organizzazioni più inclusive che hanno a capo delle dirigenti donne ottengono migliori risultati nella valorizzazione dei talenti, consolidando la reputazione e la responsabilità di impresa, che risultano più innovative e registrano miglioramenti delle performance finanziarie.  

Il prezzo che le organizzazioni pagano nel non combattere a sufficienza le disuguaglianze di genere si misura nella mancata crescita e in una riduzione del valore per gli azionisti, esattamente come un Paese perde in innovazione, crescita e competitività. 

Il segmento di mercato monitorato dall’Osservatorio JobPricing esclude i cosiddetti top earners, ossia coloro che guadagnano gli stipendi più alti: gli amministratori delegati e i dirigenti con responsabilità strategiche delle imprese quotate. In questa fetta di mercato, il differenziale salariale cresce esponenzialmente. I gap più alti si osservano tra chi ricopre il ruolo di presidente del cda senza ricoprire altre cariche (ad esempio senza essere ad) e tra i consiglieri esecutivi. A ciò si aggiunge che, se si guarda la classifica (stilata da Consob) dei top earners, considerando le prime 100 posizioni, per trovare una figura femminile bisogna scorrere lo sguardo fino a quota 66, e in totale sono soltanto 3 le donne che compaiono tra le 100 figure più remunerate delle società quotate. 

“Il gender gap – commenta Luca Semeraro, amministratore delegato di Lhh Italia e Spagna – deve essere considerato come un vero e proprio danno per la nostra società: la disuguaglianza è in primis un problema etico, ma non solo. Si tratta anche di un limite per la crescita economica. In questo senso, incentivare la partecipazione femminile al mercato del lavoro risulta una linea di intervento urgente e necessaria”.  

“Da un lato – sottolinea – è fondamentale mettere in atto politiche che supportino in maniera concreta le famiglie e le imprese e, dall’altro, coltivare la cultura della parità di genere nel mercato del lavoro e all’interno delle organizzazioni, oltre che nella sfera educativa, sociale e privata. Infatti, non possiamo mai dimenticare che le aziende sono composte da persone con un bagaglio culturale, che in primis ha radici nella formazione individuale e nelle relazioni sociali”. 

(Adnkronos)