Il viaggio straordinario di Albertini, Alumnus 2020 dell’Università di Parma, che agli studenti dice: “sognate in grande”

E’ un affascinante viaggio tra quel lembo della bassa racchiuso tra Bozzolo, Mantova, Cremona e Parma e gli sterminati orizzonti d’oltreoceano quello che Stefano Albertini ha regalato ieri con il suo intervento, tenuto all’Università di Parma, in occasione della cerimonia con la quale gli è stato consegnato dal rettore Paolo Andrei il riconoscimento dell’Alumnus 2020 conferito a laureati dell’ateneo che si sono particolarmente distinti con il loro percorso professionale.
Albertini spiega che il premio è innanzitutto per coloro che gli hanno consentito di diventare l’uomo che è oggi e, citando un aneddoto, dichiara: “I am the book he wrote. Io sono il libro che lui ha scritto”.
Il libro scritto da mamma Bianca e papà Gianni, “entrambi insegnanti con una passione e un entusiasmo educativo che non ho mai visto in nessun altro”, il libro scritto dai tanti educatori e docenti avuti, da Suor Emilia dolcissima maestra dell’asilo al professor Freccero, uno dei maggiori dantisti di sempre, conosciuto a Stanford al seguito del quale “come un clericus vagans del medio evo mi sono ritrovato nel 1994 alla New York University, dove dopo qualche mese mi è stato chiesto di lavorare per la Casa Italiana Zerilli-Marimò” ma anche il libro scritto dai numerosi “compagni di studio da cui ho appreso tantissimo”.
Albertini per descrivere il suo percorso di vita, quindi prima da studente e poi professionale, cita alcuni film.
Il primo è “Amarcord” e con questi titolo ci riporta a quel 1982 quando entrò per la prima volta con riverenza nelle aule dell’Università di Parma ma anche in quella che definisce “l’aula più vivace della mia esperienza universitaria”: “il treno, le vecchie e lente littorine straripanti di studenti e professori che le FFSS avevano il coraggio (o l’ironia) di chiamare ‘Freccia della Versilia’ perché volendo si poteva salire a Verona e scendere a Viareggio, passando per Mantova, Bozzolo e Parma”.
Il secondo film è “Another country” che Albertini utilizza per descrivere la sua partenza nel 1990 per gli Usa, con la prima esperienza all’Università della Virginia, dove “ho sentito per la prima volta il profumo della libertà e ho assaporato la bellezza della diversità”, poi l’esperienza a Stanford dove “mi si sono aperti nuovi orizzonti” fino all’approdo nella Grande Mela nel 1994 con l’insegnamento alla New York University, la collaborazione alla Casa Italiana Zerilli-Marimò di cui diviene direttore quattro anni più tardi, e un vortice di esperienze umane e professionali profonde e stimolanti che lo fanno diventare uno dei punti di riferimento della cultura italiana negli Stati Uniti.
Ed ecco per descrivere il quarto di secolo a Manhattan “Back to the future” o “La Grande bellezza”. Spiega Albertini: “La missione della Casa, e di riflesso la mia, è più di creare un dialogo culturale che di promuovere la cultura italiana, come dicevo ingenuamente a vent’anni. La cultura italiana non ha infatti bisogno di piazzisti perché è già ottimamente piazzata, soprattutto a New York, ma ha bisogno di essere liberata dagli stereotipi e presentata nella sua complessità e nella sua contemporaneità. Questa è la bellissima sfida che affronto ogni giorno coi miei colleghi e con gli studenti che lavorano con noi”.
Si chiude con due esortazioni, la prima rivolta ai professori che Albertini invita a continuare il processo di internazionalizzazione dell’università intrapreso, la seconda è per gli studenti a cui raccomanda di “sognare in grande”.
Mentre parla il suo viso è parzialmente nascosto dalla mascherina ma quando si rivolge agli studenti i suoi occhi si illuminano e sembra quasi di ripercorrere in un flash il viaggio straordinario e emozionante di quel ragazzo di Bozzolo entrato all’Università di Parma trentotto anni fa in punta di piedi.
Il pensiero corre quasi spontaneo a un altro discorso agli studenti, quello in cui Steve Jobs disse “Stay hungry. Stay foolish”, rimanete “affamati e folli” ai ragazzi proprio di quell’università di Stanford così cara ad Albertini: lui, che molti anni prima rispetto a quando Jobs pronunciò queste parole, intraprese un viaggio straordinario con il quale non ha mai perso la curiosità, l’ambizione e, aggiungiamo noi l’entusiasmo, di cambiare il mondo con un pizzico di follia.

 

 

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