“L’eutanasia non stabilisce il diritto a morire ma il diritto a non tollerare l’espropriazione della propria vita”

L'economia mantovana alla sfida delle tecnologie digitali del post-Covid
Alberto Grandi

MANTOVA – Il Comitato etico della Regione Marche ha riconosciuto che nel caso di Mario, il 43enne tetraplegico, vittima dieci anni fa di un gravissimo incidente stradale, sussistono i presupposti stabiliti dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale e quindi considerare non punibile l’aiuto al suicidio. La notizia è rimbalzata nei giorni scorsi e immediatamente si è scatenato il dibattito, quasi sempre poco documentato, su questa decisione specifica e sull’esigenza generale di approvare una legge che regolamenti tali situazioni.

Va anche detto che purtroppo la vicenda di Mario è molto più complicata di quanto appaia dalle cronache giornalistiche. Le complicazioni sono sorte all’indomani della decisione del comitato etico delle Marche proprio perché manca una legge di attuazione della decisione della Consulta e le costanti iniziative in particolare dell’Associazione Luca Coscioni, ma non solo, sono quasi una risposta obbligata a questa vera e propria inadempienza.

In questo contesto, l’iniziativa del referendum sull’eutanasia legale ha anche l’obiettivo di accrescere la pressione esterna sulle Camere, per costringerle a legiferare in materia. E’ giusto ricordare che si sono raccolte in estate oltre un milione di firme a livello nazionale e che nel Mantovano, grazie all’azione del Comitato Loris Fortuna, le firma raccolte sono state oltre 2000.

Nel 2019 la Consulta aveva lanciato un vero e proprio ultimatum alle camere, perché entro un anno disciplinassero la materia conformemente a questo indirizzo. Il termine è trascorso inutilmente e quindi oggi ci troviamo punto e a capo. Ma, al di là degli aspetti puramente giuridici e soprattutto penali, serve una legge anche per chiarire l’equivoco ricorrente, di natura etica e direi quasi filosofica, per cui la legalizzazione dell’eutanasia stabilirebbe il diritto di morire anziché di vivere, quando invece stabilisce il diritto completamente diverso di morire bene. In una prospettiva bioetica, anche la cura sollecita per i bisogni morali e materiali del morente è una forma di eutanasia, e per questo non ha senso contrapporre cure palliative e suicidio assistito: rappresentano mezzi diversi in vista dello stesso fine, cioè quello di assicurare un trapasso il più possibile sereno.

La morte “buona” non è necessariamente la morte indotta, ma in ogni caso per essere buona deve corrispondere ai desideri del morente; per questo dal punto di vista linguistico il termine eutanasia (che dal greco significa proprio “morire bene”) è stato storicamente utilizzato anche al di fuori dell’ambito medico, ad esempio nella letteratura teologica per indicare la “morte felice”.

Insomma, la richiesta di una regolamentazione del diritto all’eutanasia non deriva da una pressione culturale per l’appropriazione individuale del diritto alla morte, ma proprio dal suo contrario, cioè da un senso sempre più diffuso di espropriazione del diritto alla vita e alla libertà nell’esperienza della malattia. Oggi la “morte naturale” è qualcosa di tremendamente difficile da stabilire: la tecnologia, infatti, ci fornisce la possibilità di sostituire gli organi nelle principali funzioni vitali e quindi offre straordinarie possibilità di cure ai malati. Ma tutto ciò può rendere la vita stessa un prodotto tecnologico insopportabilmente impersonale per chi non può disporne per propria libera scelta.

Dall’altra parte, è evidente che con l’invecchiamento della popolazione aumenta la diffusione delle fragilità, delle disabilità e delle cronicità esposte al rischio di abbandono. Ma è altrettanto evidente che la strada per difendere il diritto a essere assistiti dei fragili e degli anziani non passa da un burocratico obbligo all’accanimento terapeutico per quei malati che non vogliono più tollerare l’espropriazione della propria vita e quindi della propria morte.