Social come sfogatoio tra provocazioni, offese e insulti a conoscenti o sconosciuti. Ma quando le espressioni offensive e denigratorie sono riconducibili in modo univoco a una determinata persona, per chi utilizza Facebook, Twitter o altre piattaforme social per compiere aggressioni virtuali scatta il reato di diffamazione aggravata. Anche senza fare nomi. A spiegare quando succede e come è perseguibile la persona autrice di diffamazione, sono gli esperti de La Legge per Tutti.
Alcuni, spiega il sito di informazione legale, “credono che basti non nominare l’interessato per non rischiare nulla. In realtà non è così. Insultare su Facebook senza fare nomi è reato – e precisamente diffamazione aggravata – quando le espressioni offensive o denigratorie sono riconducibili in modo univoco a una determinata persona. Questo si ricava dal contesto e anche dal luogo in cui il post è stato inserito, come la «bacheca Facebook», cioè la pagina che contiene il profilo di un soggetto”.
Ad esempio, sottolineano, “una recente sentenza della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione aggravata nei confronti di due donne che avevano preso di mira un’amica e collega chiamandola ‘nana’ a causa della sua bassa statura e facendo commenti sprezzanti e denigratori su questa circostanza. La Corte ha ritenuto che «lo specifico contesto territoriale in cui operavano gli imputati e la persona offesa» (una cittadina con meno di 20mila abitanti) e «la combinazione di elementi» desumibili dai commenti offensivi fossero tali da rendere ben riconoscibile la persona colpita da questi epiteti offensivi; sicuramente ciò era avvenuto nella cerchia dei suoi «amici o conoscenti o familiari», ma molto probabilmente anche nel suo ambiente di lavoro (le imputate erano colleghe)”.
Insomma, continuano gli esperti, “l’offesa si era propagata e aveva raggiunto lo scopo che costituisce l’evento del reato di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa o da «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», come recita l’art. 595 del Codice penale, con una formulazione ampia che, secondo la giurisprudenza, comprende anche i social network, come Facebook o Instagram. Attenzione, dunque, a moderare le parole e le espressioni quando si scrive sulla tastiera o si digita sullo smartphone pubblicando post o commenti sui vari social. Gli insulti resi pubblici costituiscono diffamazione e perciò anche insultare su Facebook senza fare nomi è reato. Vediamo più in dettaglio quando si configura il reato e cosa rischia chi compie queste azioni”.
“La diffamazione – si legge – è l’offesa della reputazione altrui attraverso la comunicazione con più persone. La reputazione è l’aspetto esterno, sociale, dell’onore cui ognuno ha diritto. Per integrare il reato di diffamazione occorre che le persone coinvolte siano almeno due (diverse dalla persona offesa). Su Internet e sui social network, come Facebook, questo avviene facilmente, perché ogni pubblicazione è capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque significativo, di persone.
Il reato di diffamazione è perseguibile a querela della persona offesa, che deve essere sporta entro tre mesi dal momento in cui si viene a conoscenza delle offese (spesso ciò avviene in un momento posteriore a quello della pubblicazione). La diffamazione aggravata dal mezzo della stampa o di pubblicità – che, come abbiamo visto, comprende anche Internet e i vari social media – è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a 516 euro, fermo restando il diritto della persona offesa al risarcimento dei danni arrecati dalle offese divulgate nei suoi confronti”.
“Anche gli insulti non nominativi su Facebook – dicono ancora gli esperti de La Legge per Tutti – possono integrare il reato di diffamazione, quando le espressioni offensive sono riconducibili alla persona presa di mira. L’essenziale è – come ha affermato di recente la Corte di Cassazione in una vicenda relativa ad offese pronunciate nei confronti di alcuni appartenenti all’Arma dei Carabinieri – che il soggetto leso, anche se non è stato menzionato espressamente con il suo nome e cognome, «sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone»”.
La nuova sentenza riportata ad esempio, “nell’introduzione non si discosta da questi criteri, ed, anzi, specifica che «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, Cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone». Tutto questo, ovviamente, a condizione che «vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o individuabili», e non si tratti, invece, di offese generiche e indeterminate rivolte, ad esempio, ad un’intera categoria o classe sociale, senza possibilità di risalire ai singoli componenti”.
Proprio per concretizzare il principio affermato, dicono ancora, “la sentenza sottolinea che «non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali». Ecco perché, nel caso esaminato, la persona offesa era indubbiamente riconoscibile da «una serie di elementi individualizzanti», a partire dal richiamo al suo «nanismo», sino all’appellativo della zia (che era addetta alle pulizie nel negozio dove lavoravano le due imputate) indicata come «spazzina». In questo modo tutti i dipendenti e collaboratori dell’esercizio commerciale erano in condizione di individuare facilmente la vittima degli insulti pubblicati su Facebook”.
Ovviamente, concludono quindi gli esperti, “insultare una persona per il suo aspetto fisico – come è avvenuto nel caso esaminato – è penalmente perseguibile, perché integra un’ipotesi di body shaming”.