(Adnkronos) – “Sarà la politica internazionale il territorio su cui i nostri partiti potranno piantare i loro semi e magari cominciare a rifiorire, oppure perdersi una volta per tutte nella loro stessa aridità politica. D’altronde, è quasi sempre andata così. L’Italia risorgimentale si unificò grazie al genio politico del conte di Cavour, che seppe scegliere le giuste alleanze internazionali del suo tempo. E anche Mazzini e Garibaldi, meno abituati alla diplomazia delle grandi cancellerie, dedicarono alle relazioni col resto del mondo una gran parte delle proprie energie e strategie. Per non dire del nostro dopoguerra, sagomato intorno agli accordi di Yalta, e immaginato da De Gasperi come una lunga e pacifica stagione segnata in primo luogo dalla scelta europeista e atlantista.
Una corposa letteratura politica ha raccontato tutte le difficoltà di queste relazioni. La contrarietà di una parte non irrilevante della sinistra democristiana verso l’alleanza atlantica. E la crescente distanza dei comunisti da quel modello di socialismo reale che aveva messo radici ad est, e che pure fino agli settanta fornì a Botteghe Oscure denari, sostegni e anche alcune discutibili suggestioni. Eppure, la costruzione di Yalta durò dalle nostre parti fin quasi alla caduta del muro di Berlino rimanendo come punto di riferimento dell’identità delle forze politiche di tutto quel tempo.
La Dc fu europeista fino al midollo e atlantista quanto bastava per restare nel campo occidentale. Così pure gli altri partiti laici di quella stessa maggioranza. Il Pci fu sovietista per molti, troppi anni, ma infine capì che la sua marcia di avvicinamento al governo doveva per forza di cose passare attraverso un significativo allontanamento da quel mondo e da quel modello.
In tutti questi casi fu la politica estera a dare un senso a quella interna. I partiti di quella lunga stagione forgiarono la loro identità su testi cospicui: le encicliche dei papi, i classici del pensiero marxista, i grandi tomi di economia e di sociologia di quell’epoca. Ma fu soprattutto la collocazione internazionale a chiarire il loro orizzonte, a propiziare le loro fortune e in definitiva a spiegare il loro significato.
A questa regola non si può dire che la seconda repubblica abbia corrisposto con altrettanto rigore e altrettanta coerenza. E tantomeno la terza. I leader di quelle stagioni si sono lasciati andare un po’ tutti a qualche giro di valzer, al modo dell’Italia del primo novecento. Liberi da vincoli ideologici, si sono mossi con una discreta disinvoltura su tutti gli scacchieri in cui prendeva forma un mondo meno rigido di quello bipolare del primo dopoguerra. Peccato che non sempre questa disinvoltura abbia corrisposto a un disegno, a una strategia, a un’idea del pianeta da ripensare e possibilmente organizzare.
Incarnato dalle più mutevoli felpe e magliette, il “fregolismo” internazionale di Matteo Salvini riassume ed estremizza un approccio fin troppo disinvolto (usiamo un dolce eufemismo) a questi argomenti. Ma onestà vuole che si dica che tanti altri leader, perfino tra i più blasonati, hanno fatto propria quella politica dei giri di valzer che ha lungamente improntato le nostre relazioni internazionali -contribuendo diciamo così a non accrescere (altro dolce eufemismo) la nostra credibilità agli occhi degli altri.
Ora però il drammatico riscaldamento delle relazioni internazionali costringe tutti a elaborare un’idea dell’Italia rispetto al resto del mondo. E dunque a recuperare una visione geopolitica che dia un senso anche alle dispute più piccole che avvengono nel nostro paese. Non si tratta di recitare le giaculatorie di rito sul nostro europeismo e atlantismo. Si tratta piuttosto di capire che ogni partito, ogni coalizione, ogni progetto di governo dovrà necessariamente basarsi su un legame con il resto del mondo, su una scelta di campo, su un sistema di alleanze. E che sarà questo insieme di idee e di relazioni che alla fine darà senso compiuto ai progetti di governo di questo e di quello.
E’ bene tenere a mente che in un sistema globale è sempre la politica estera che determina quella interna. Non perché si voglia abdicare alla nostra sovranità nazionale. Al contrario, perché è solo così che si può pensare di conservarla. Tanto più di questi tempi”. (di Marco Follini)