MANTOVA – Il cerchio avrebbe dovuto chiudersi sabato al VillaPapeete di quella Milano Marittima in cui tutto era partito a inizio millennio. L’arrivo del violentissimo nubifragio ha invece fatto sì che l’avventura lunga 25 anni del vocalist mantovano Francesco Sarzi sui palchi delle discoteche più prestigiose d’Italia (e non solo) restasse in qualche modo aperta a un ipotetico, secondo addio da organizzare – forse, chissà – in un prossimo futuro. “A questo punto ho ancora un gettone da spendere” dice sorridendo Sarzi, che aveva scelto il fine settimana appena trascorso per appendere il microfono al chiodo, per utilizzare una metafora sportiva. Venerdì appuntamento al Coco Beach di Desenzano, sabato a Milano Marittima, dove però “the last dance” – per utilizzare un’altra espressione cestistica – è stata annullata dalla tempesta. “Qualche amico da Mantova era già arrivato – spiega – e qualcun altro, vedendo le previsioni, ha desistito. Alle quattro del mattino si è scatenato l’inferno, sono stato fortunato perché avevo parcheggiato l’auto in una zona meno colpita dalla bufera”.
Francesco, com’è cominciato questo viaggio che ti ha portato a diventare il vocalist più importante e richiesto d’Italia?
“All’inizio in realtà mi ero avvicinato alla radio. Ero un grande ascoltatore di programmi di musica dance, non avevo in mente di fare discoteca ma di diventare uno speaker. A Radio Base ho conosciuto Cristian Marchi, all’epoca non ancora famoso, che poi mi ha avviato alla professione. Facevano un programma sulla falsariga di “Dj Parade” di Albertino, girava molto bene. Nel frattempo, avevo 17 o 18 anni, studiavo tanto per capire come poter fare quel mestiere al meglio: ho cominciato a imparare a parlare sopra la musica, affinando la tecnica. Da lì mi sono avvicinato al mondo della discoteca e ho capito che preferivo essere di fronte a migliaia di persone e interagire con loro. Cristian è stato il primo che mi ha dato fiducia. Mi ha portato a lavorare con lui a Milano Marittima, allo Stork, dove era dj resident. In pratica il primo ingaggio pagato l’ho avuto fuori provincia. Penso fosse il 2001 e ricordo che il cachet mi fu pagato in lire”.
“La fortuna vuole che, dopo qualche student party al Jackie’o di Marmirolo, nel 2002 ho ottenuto la mia prima residenza al Grand Cafè di Cerese, che aveva bisogno di un resident per la serata del sabato. Nel 2003 sono passato al Bambù e in una di quelle sere mi ha sentito Rossella Casanova, proprietaria del Papeete. Era un altro mondo: non c’erano i social, quindi i gestori delle discoteche andavano in giro per l’Italia a fare scouting. Lei mi ha scoperto e nell’estate del 2004 debuttavo al Papeete di Milano Marittima. Per me era come per un calciatore andare in una grande squadra, perché oltre a essere il locale di riferimento per tutta Italia in quegli anni, a Milano Marittima avevo sempre fatto un mese di vacanza con mia nonna ogni estate da quando ero bambino”.
E anche quello è stato un ulteriore trampolino di lancio.
“Si presentavano i direttori artistici con il biglietto da visita, volevano inserirmi nella stagione invernale. Non faccio nomi, dico solo che in quel periodo, più o meno fino al 2010, ho lavorato dappertutto: in Costa Smeralda, in Versilia, sulla Riviera Ligure, a Rimini e Riccione, sul Lago di Garda, a Madonna di Campiglio, nelle città più importanti: Milano, Torino, Roma, Firenze… Ero sempre in giro, lavoravo 4-5 sere a settimana, partivo il martedì con la serata universitaria a Parma, la sera dopo uguale a Bologna, poi i club. Tornavo a casa il lunedì”.
“La situazione è peggiorata, la discoteca ha smesso a essere di moda e la crisi del settore è andata di pari passo con la crisi che ha colpito l’Italia. Forse non c’era nemmeno stata una vera rivoluzione musicale, il mondo delle discoteche non si era mai rinnovato dagli anni Settanta. A quel punto ho deciso di alzare il cachet, fare meno locali ma tenendo solo i più prestigiosi. Fino all’inizio del 2020 ho vissuto solo di discoteca. Poi è arrivato il Covid, i locali sono rimasti chiusi e mi sono avvicinato al mondo del marketing digitale, che mi sembrava la cosa più simile al comunicare così come lo facevo in discoteca. Prima ho studiato, poi sono stato assunto da un’agenzia di Verona come commerciale e oggi sono co-titolare e direttore di Anima Digitale, agenzia di marketing e comunicazione e centro di formazione accreditato da Regione Lombardia con sede a Curtatone. In qualche modo ho fatto fruttare anche la laurea in giurisprudenza che avevo preso anni addietro a Parma”.
L’attività da vocalist, però, non si è mai fermata.
“No, anzi, parallelamente mi ero anche cimentato come direttore artistico di locali importanti come il Vanilla Club di Riazzino (Canton Ticino, Svizzera) e al Bahia di Porto Cesareo. Esperienze andate molto bene, tra il 2017 e il 2019, gestivo la parte artistica ma anche quella organizzativa. Avevo il budget e chiamavo artisti e agenzie. Un incarico che mi dava molte più responsabilità e molta meno riconoscenza, essendo non sul palco ma dietro le quinte”.
Qualche ricordo sparpagliato di questi venticinque anni sui palchi delle discoteche?
“Cito volentieri il closing party dell’anno scorso della stagione estiva di Gardaland, è stato pazzesco. E un evento a San Benedetto del Tronto tanti anni fa, con almeno 10mila persone sotto il palco, nella zona dell’Arena. Ricordo nel 2005 la serata con Bob Sinclair al Dehor di Lonato, lui era già una star internazionale. Ho lavorato con Benny Benassi, Hardwell, ho presentato eventi di Sven Vath, Luciano, Albertino, Fargetta, Molella, Prezioso, Gabry Ponte… Quando andava di moda fare eventi con i big della televisione ho presentato serate con Belen Rodriguez, Elisabetta Canalis, Raoul Bova”.
Fare il vocalist lo vivevi come una professione o un divertimento?
“Sapevo di avere una dote, ho iniziato a parlare al microfono della Fisher Price che ero bambino. Ho proseguito al Liceo Virgilio, alle assemblee quando ero rappresentante d’istituto. Ho sfruttato una mia dote naturale calandola nel mondo della disco. Quindi l’ho sempre considerato un lavoro frutto di una dote, ma comunque un lavoro. Ci sono stati gli anni di gavetta in cui impari il mestiere, a parlare col diaframma, a studiare i dischi per impararli a memoria, ore e ore passate ad ascoltare musica per capire dove poteva cominciare l’intervento del vocalist”.
Oltre a questo, ti sei calato anche in ruoli affini…
“Ho presentato centinaia di eventi aziendali, non ultimo il closing party del Vinitaly 2024, o ancora alla Fiera Cavalli sempre a Verona. L’anno scorso ho condotto l’evento natalizio di Ing Direct a Milano, in presenza dell’amministratore delegato arrivato dall’Olanda. Questo è un percorso che continuerò a portare avanti”.
Come vocalist, invece, come nasce l’idea di ritirarsi dalle scene?
“Una serie di motivi, tra cui il senso di responsabilità verso la mia nuova attività imprenditoriale, che ha una struttura importante e voglio avere il pieno focus su questa strada che mi sta dando tante soddisfazioni… ovviamente emozioni diverse rispetto a quelle che può darti una discoteca piena di gente. Poi la questione anagrafica: per il ruolo che ho ricoperto fino allo scorso weekend non esistono limiti, ma devi avere anche una fisionomia allineata con le persone che frequentano i locali, che vanno dai 17 ai 24 anni, devi essere credibile davanti al tuo pubblico. E poi gli stimoli: meglio di quello che ho fatto non posso fare, perché gli anni d’oro della discoteca sono finiti. Anche l’attenzione del pubblico sul mio ruolo è calata, non sei più opinion leader, guardano tutti lo smartphone”.
Il ricordo più bello in assoluto?
“Il tour australiano con Cristian Marchi nel 2010. Potersi esibire letteralmente dall’altra parte del mondo è tanta, tanta roba”.
Fabio Guastalla